Mentre la retrospettiva di Cildo Meireles è ancora in corso, nel piccolo spazio Shed dell’HangarBicocca, c’è la nuova maxi installazione multimediale di forte impatto scenografico di João Maria Gusmão (1979) e Pedro Paiva (1977) chiamata “Papagaio”, composta da trentanove opere, di cui trentacinque film brevi, e una nuova pellicola della durata di 43 minuti che dà il titolo alla mostra.
Entrambi nativi di Lisbona, attivi dal 2001, hanno conquistato la scena internazionale alla Biennale di San Paolo (2006) e a quella di Gwangju (2010), e con la partecipazione come rappresentanti del Portogallo alla 53esima Biennale di Venezia, dove sono stati anche invitati nel “Palazzo Enciclopedico” di Gioni.
“Papagaio” è quindi la prima e più importante retrospettiva italiana del duo portoghese che non rilascia interviste e non era presente neppure alla conferenza stampa della mostra a cura di Vicente Todolì, che ha concepito con gli artisti un labirintico percorso visivo e sonoro che valorizza il linguaggio cinematografico e una inafferrabile metafisica del quotidiano, un assemblaggio effimero di documentari dell’inatteso, in cui il fruscio di vecchi proiettori e le immagini in slow motion, materializzano “sculture temporanee”, come le hanno definite gli autori. Le loro visioni effimere e fluttuanti si muovono a rallentatore in un labirintico ambiente multisensoriale, in cui aleggia un’impercettibile melanconia di pessoniana memoria, dove arte e letteratura, vita e poesia, tecnologia e magia si completano in un’ opera site specific immersiva e ritmata da scenari diversi, in cui ognuno è libero di cercare punti di vista sempre differenti.
Papagaio, presentato in una parte isolata dal percorso, è concepito come una tradizionale proiezione cinematografica: è da godere seduti, anche perché dura 43 minuti, ed è il primo mediometraggio concepito dagli artisti, noti per proiezioni poco superiori ai due minuti (corrispondenti alla lunghezza standard di un negativo delle vecchie cineprese Bolex), che rappresenta un rito animista simile alle pratiche voodoo, intriso di esoterismo, filmato dall’inizio alla fine, che valorizza la trance collettiva come mezzo per raggiungere la catarsi e la purificazione. Il consolidato duo portoghese rende omaggio al cinema muto dei fratelli Lumiére, la cui produzione si caratterizzava per la ripresa del quotidiano, tipo documentario, senza alcuna interpretazione dell’evento, e all’inventore del fantasy Georges Méliès, padre degli effetti speciali. Le ambientazioni del corpus di “Papagaio” sono per lo più da ricercare nei paesaggi dell’arcipelago di Sao Tomé e Principe, una ex colonia portoghese incastonata nel Golfo della Guinea, dove il duo ha soggiornato nel 2011 e anche quest’anno per produrre alcuni dei nuovi lavori esposti in occasione della retrospettiva milanese, scevri da condizionamenti dei linguaggi dei media commerciali e dei codici di rappresentazione ormai prevedibili della cultura globale. Varcato l’ingresso della mostra, lo spettatore è accolto dal retro delle pareti utilizzate per le proiezioni, messe così per evidenziare che, nelle loro opere, nulla è come sembra e tutto può essere ribaltato: realtà, finzione, associazioni iconografiche, assonanze sonore, evocazioni simboliche, metaforiche, survisioni poetiche organizzate secondo un criterio non cronologico, bensì empatico-emozionale.
La mostra si apre con Glossolalia (Good morning, 2014): un film che mostra due pappagalli dai colori spettacolari mentre pronunciano la parola “buongiorno”, anche se non si ode nulla se non il fruscio dei proiettori e termina con Cross Eyed Table Tennis (2014), nel quale si mostra il movimento di una palla da tennis durante una partita di ping pong, che sembra ipnotizzare lo sguardo di due uomini affetti da strabismo: è questa una emblematica metafora sull’impossibilità per l’uomo di cogliere la realtà attraverso i propri sensi, che apre una riflessione sull’ambiguità della visione in bilico tra illusione e percezione in cui l’inatteso diventa oggetto del desiderio, tema cardine di tutto il lavoro del duo portoghese. Da questa immagine di apparente naturalismo, fino a quelle di ingannevole taglio documentaristico, con la ripresa di dettagli e di eventi minimi, tutto svapora nell’oscurità dello spazio in cui sembrano cristallizzarsi schermi–opere in un eterno presente e magmatico flusso d’immagini evocative.
Ambigue, sfuggenti e metafisiche, le immagini di Gusmão e Paiva investigano il rapporto tra realtà e finzione, mettendo a fuoco che tutto nella vita è transitorio e instabile.
Cercate i cerchi concentrici nel film Experiment on the Effluvium (2009): vedrete piccoli crateri provocati dall’impatto di pietre gettate sulla superficie dell’acqua, in un’apparente solidificazione delle azioni.
E poi tanti omaggi, ai “miti”: a Fernando Pessoa (1888-1935), alla “patafisica” o “scienza delle soluzioni immaginarie” del poeta drammaturgo francese Alfred Jarry (1873-1907) e ad altri scrittori e filosofi. Sono opere che innescano riflessioni plurime sul’intersezione tra l’uomo, lo schermo, la rappresentazione pittorica e la realtà, attraverso un linguaggio meta-cinematografico. Tra altre tematiche ricorrenti degli autori c’è la dicotomia tra l’uomo e l’animale, come si nota nel film The soup (2009), in cui si vede un gruppo di scimmie nell’atto di affondare le zampe in una pentola ricolma di acqua in ebollizione per afferrare alcune patate. Questo comportamento comico e inspiegabile per l’uomo, mette in discussione le nostre aspettative e la percezione della realtà ambigua come i nostri sensi, sospesa tra realtà e illusione.
Altro tema presente nei lavori degli artisti è il ventriloquismo, pratica anticamente attribuita agli oracoli e più tardi sperimentata dagli illusionisti, assurta nelle opere del duo portoghese a summa emblematica dell’incapacità umana di attribuire senso alla realtà attraverso la parola intesa come logos, ovvero strumento razionale. La ragione e il senso dell’assurdità è il tema anche delle nuove produzioni, insieme a Papagaio: Before Falling Asleep , a pre-cortical image inside a moving train (2014) dove una delle tre camere oscure inscena il principio della visione stereoscopica, tentando di riprodurre la percezione di una persona che sta per addormentarsi dentro un vagone ferroviario, per esprimere il paradosso della realtà effimera e transitoria, come la polvere di cui sono fatti i sogni e gli incubi.