«Il titolo del volume Now We Have Seen: Women and Art in the Seventies in Italy – dedicato all’analisi delle molteplici tematiche riguardanti le tendenze artistiche, sociali e politiche degli anni Settanta, che ancora si riverberano oggi – che dà anche il titolo alla nostra giornata di studi, è tratto da una frase del Manifesto di Rivolta Femminile del 1970: “Abbiamo guardato per quattromila anni: adesso abbiamo visto!”», afferma Filippo Fossati, direttore di Magazzino Italian Art che – oggi, in presenza e online – intende offrire al pubblico l’opportunità di ascoltare gli interventi delle studiose che hanno dato vita al volume: Giorgia Gastaldon, Silvia Bottinelli, Maria Bremer, Lara Conte e Raffaella Perna.
Il volume è frutto di un progetto di ricerca avviato nel 2022 dalla Biblioteca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte di Roma, con il sostegno dell’Italian Council, Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura Italiana con la curatela scientifica di Giorgia Gastaldon. La giornata fa parte dell’omonimo progetto di ricerca sostenuto dall’Italian Council (2022), Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura Italiana.
Con la premessa che negli anni ’70 molte artiste, spinte anche da istanze femministe, rivalutarono quelle pratiche artigianali tradizionalmente considerate femminili, come il cucito, il ricamo e la tessitura, ponendole al centro di un rinascimento creativo in un periodo in cui si andava sviluppando una maggiore coscienza di genere, Giorgia Gastaldon – Ricercatrice in Storia dell’arte contemporanea presso l’Università dell’Insubria, Varese-Como – prende in esame la ricerca di alcune artiste italiane attive sul territorio negli anni ’70 come Carla Accardi, Renata Boero e Maria Lai. Il suo intervento, Weaving and Stitching: Female and Feminist Practices in Italian Abstract Art in the 1970s, fa luce sulla possibilità che l’arte astratta abbia davvero rappresentato, uno spazio di maggiore agio e libertà creativa, data la sua intrinseca neutralità in quanto arte ripulita da tutti quegli elementi iconografici che nel tempo avevano celebrato una lunga serie di imprese maschili. L’appropriazione, da parte loro, delle pratiche tradizionali femminili dimostra la possibilità di stabilire una correlazione tra l’arte astratta e i processi di rivendicazione di genere, attingendo alla lunga e antica tradizione dell’esperienza femminile, rinnovata e reinterpretata alla luce delle esigenze più contemporanee.
Prende invece spunto dall’opera di Luciano Fabro Tre Nudi che scendono le scale (1988) Silvia Bottinelli – Professoressa associata e direttrice del dipartimento di Visual and Material Studies Department presso la School of the Museum of Fine Arts, Tufts University, Boston – nell’intervento Behind the Window in Postwar Italian Art: Reframing a Metaphor, che ha come intento quello di aprire una finestra sull’arte italiana del dopoguerra, rivolgendo in particolare lo sguardo alla produzione femminista. Fin dal ‘500 le donne sono state costrette a limitare i loro contatti con la sfera pubblica per dedicarsi esclusivamente al proprio nucleo familiare – sostiene la filosofa e attivista Silvia Federici – e anche nell’800, come osserva Frances Borzello, l’iconografia della donna alla finestra «sottolinea la sua posizione nella società, una posizione simile a quella di un uccello in gabbia». Dalla finestra dunque, che compare anche nelle opere di Carla Accardi, Diana Bond, Chiara Diamantini e Cloti Ricciardi, tra le altre, Bottinelli pone sotto la lente della sua anilisi le modalità con cui le artiste le artiste hanno integrato e decostruito l’iconografia della finestra in Italia negli anni ‘70 e Ottanta, in un momento di crescente emancipazione e consapevolezza del secolare confinamento delle donne nella sfera domestica.
Raffaella Perna – Ricercatrice in Storia dell’arte contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma – propone con Photobooks and Feminism in Italy in the 1970 una riflessione sui libri fotografici femministi pubblicati in Italia negli anni Settanta. Il ‘libro fotografico’, ampiamente diffuso negli anni 2000, è stato spesso utilizzato per indicare una così ampia tipologia di testi contenenti fotografie, realizzati indifferentemente per scopi estetici, politici e sociali, da generare un’uniformità fuorviante che, come ha osservato Elizabeth Shannon, «offusca le origini storiche, culturali e ideologiche dei singoli libri, pregiudicando la nostra capacità di valutare la natura e il valore del libro fotografico». Analizzando la storia dei libri fotografici femministi pubblicati in Italia negli anni ’70, Perna ne esamina non solo le forme materiali e simboliche ma anche i contesti di produzione e circolazione e i rapporti con il neofemminismo italiano proponendo un’analisi circostanziata: perché dunque, in questo periodo, così tante artiste e fotografe vicine al pensiero e alla pratica politica del femminismo scelgono come medium il libro? Quali sono i canali di produzione e diffusione di queste pubblicazioni e come vengono recepite nel contesto dell’arte, della fotografia e della militanza? E cosa si intende con l’espressione “libri fotografici femministi”? Quest’ultima definizione si riferisce solo ai testi pubblicati in stretta continuità con il Movimento delle donne, o è possibile ampliare il campo di indagine oltre il mero ambito dell’attivismo?
Sculpture Practices and Feminist Perspective, from the Historical Dimension to the Present: Genealogies and Reception è il titolo dell’intervento di Lara Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte contemporanea presso l’Università Roma Tre – che verte sul tema della genealogia e sulle questioni legate alla ricezione, concentrandosi in particolare sulla ricerca di alcune artiste menzionate nel volume e su come questa sia al centro di un rinnovato interesse e scambio transgenerazionale che permette di soffermarsi sull’intreccio tra pensiero femminista, storia dell’arte, scrittura curatoriale e riflessione sull’archivio come pratica non lineare. Conte muove dall’emblematica mostra Io dico Io / I say I, curata insieme a Cecilia Canziani e Paola Ugolini, che ponendo la questione cruciale di un confronto, nel presente, con il pensiero di Carla Lonzi, ha rivolto l’attenzione a un’idea di soggettività capace di scardinare l’ordine simbolico determinato da uno sguardo dominante e presentarsi al mondo nella sua differenza, sgretolando il canone e l’egemonia delle sue narrazioni. In questa prospettiva, la riflessione sul rapporto tra arte e femminismo non rimane confinata all’indagine storiografica ma diventa possibilità di riflessione sul presente, sia nella dimensione dello studio e della ricerca, sia nella considerazione dell’arte delle donne operanti oggi in Italia.
Chiude la giornata l’intervento di Maria Bremer – Ricercatrice post-PhD presso la Ruhr-Universität, Bochum – Recognition Across Time: “Herstories” in Exhibitions (1970s/2020s), che si concentra sulla Cooperativa Beato Angelico: una cooperativa di sole donne che dal 1976 al 1978 promosse dieci mostre per presentare le opere di diverse artiste in una galleria autogestita, con sede in una via intitolata al Beato Angelico, nel centro di Roma. Bremer approfondisce, per iniziare, le retrospettive organizzate dalla cooperativa negli anni ‘70, per poi esaminare come le ex socie della cooperativa Suzanne Santoro e Stephanie Oursler siano state a loro volta riconsiderate dall’artista Constanze Ruhm nella sua recente mostra Come una pupilla al variare della luce [Like A pupil in the changing of light], Vienna, 2023. Quali sono le potenzialità di emancipazione di una storia dell’arte basata su risonanze tra posizioni a lungo sottovalutate? E per contro, cosa viene tralasciato da questo focus così selettivo e non lineare sulle donne, da parte delle donne? Come possiamo iniziare a studiare il “revisionismo storico-artistico” come “modalità di creazione del significato espositivo”, per usare un’espressione di Terry Smith?
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