Si è inaugurata il 12 aprile, alla Casa dei Tre Oci, una tra le massime istituzioni italiane nell’ambito della fotografia contemporanea, la spettacolare mostra “Lost + Found” di David La Chapelle.
Ottanta immagini ripercorrono la discussa carriera del fotografo statunitense. Ma accanto alle fotografie più iconiche come quelle scattate a Mohamed Ali, Hillary Clinton, David Bowie e Amanda Lepore, sua musa ispiratrice che dichiara «Tra noi c’è un legame forte, creativo e divertente. Sono affascinato dal suo talenti creativo artistico e dal suo umile senso dell’umorismo», si possono ammirare in anteprima mondiale le opere della neonata serie “New World”.
Undici scatti dati alla luce dopo quattro anni di gestazione, in cui La Chapelle rielabora e approfondisce quel percorso oramai trentennale estremamente vincolato alle icone della moda, dello star system e dell’advertising.
Il fotografo, però, non tradisce mai la sua cifra stilistica; quella stessa cifra che era stata notata negli anni 80’ da Andy Warhol e che aveva mosso nel padre della Pop Art l’intenzione di offrire al giovane fotografo del Connecticut il suo primo impiego all’interno della rivista Interview.
Eppure il tempo passa e le mode anche, e così David La Chapelle matura interrogandosi sulle ossessioni a noi contemporanee e su temi profondi quali il Paradiso, la gioia, la rappresentazione della natura e quella dell’anima. Dice basta e si allontana dalla dal suo stesso immaginario iconico. Lascia Hollywood e crea una fattoria a Mawi, alle Hawaii.
Il punto di svolta che segna il passaggio ad una nuova fase della sua ricerca (culminata con l’approdo dell’artista ad una nuova percezione estetica) è stato il viaggio a Roma del 2006, dove visitando la Cappella Sistina e venendo a contatto con le opere di Michelangelo, La Chapelle, rimane folgorato dai fasti del potere religioso e dalla monumentalità del Rinascimento italiano.
Un Rinascimento storico e culturale, biologico e sociale. Per La Chapelle una rigenerazione, una “natura spessa e viva” sempre giocata tra il sacro e il sacrilego. Una natività estremamente a contatto con la natura, un rapporto panico in cui l’uomo si sottopone a trasfusioni della stessa Madre Terra. Emerge così un nuovo concetto di spiritualità, di bello, e l’idea che «Oltre a trovare il sublime nella natura, nella nascita di un bambino e in un tramonto, sia proprio nell’arte che esso risiede», spiega l’artista: un sublime tutt’altro che sepolto ma che anzi deve poter gridare al mondo intero.
La Chapelle, come riporta il curatore Reiner Opoku in apertura del catalogo (“La Chapelle, Lost+Found”, edito da Marsilio) “Coreografa un mondo a colori fatto di bellezza, follia creativa e analisi critica”.
Il fotografo ammette – appunto – di amare il Rinascimento, la pittura. I suoi massimi ispiratori dice per sua stessa ammissione «Sono stati Michael Jackson e Michelangelo; tanto diversi quanto simili». Un accostamento apparentemente azzardato ma che si comprendere nella volontà di La Chapelle di impressionare le persone, di colpirle nel profondo proprio come è in grado di fare la musica.
«Vorrei che che chi esce da un museo o da una galleria si sentisse davvero diverso da prima. Voglio toccare gli spettatori esattamente come la musica tocca le persone, perché è la musica a trasportarci ad uno stadio superiore, ed io voglio fare lo stesso con le mie immagini».
È bene tener presente che proprio nel mondo musicale e nell’universo di David Bowie e più propriamente di Ziggy Stardust, La Chapelle abbia trovato un valido porto in cui sentirsi capito, non giudicato e sopratutto in grado di trasmettere qualcosa di suo a questo mondo.
La Chapelle traduce i classici e li ripropone in un orizzonte d’arte contemporaneo; così da Diluvio Universale si passa al Diluvio dopo il diluvio, dalle classiche rappresentazioni di Adamo ed Eva si approda a Once in the Garden in cui la donna in realtà è un transessuale, e dall’Ultima Cena si retrocede alla Prima cena.
Una panoramica antitetica, ossimorica, una allegoria di naufraghi a cui si contrappone una tragica vitalità. Si può parlare di una liturgia dell’immagine che esplicita la coesistenza del pop e del disfacimento. In un momento strano e confuso, promiscuo e crudele, l’artista perturba lo spazio, crea un’onda luce e un eco di speranza.
Come scrisse magistralmente un altro americano estremamente legato alla cultura classica più ampiamente intesa, T.S.Eliot nella sua Terra Desolata: “Aprile è il mese più crudele, generando/ Lillà dalla terra morta, mischiando/ Memoria e desiderio, eccitando/ Spente radici con pioggia di primavera”.
Aprile è più crudele e più potente dell’inverno perché non ha “Nevi di dimenticanza ad accompagnarlo”, ma un’insana, folle, inattesa brama di vivere, come del resto tutte le iperrealiste e pazzesche foto di David La Chapelle.
Maria Vittoria Baravelli