OLIO SU VERTIGINE

di - 15 Marzo 2016
Prima di iniziare a raccontare di opere, sarebbero utili delle digressioni sull’autore. Ma che effetto fa, invece, arrivare al cospetto di cinque dipinti e perdersi dentro di essi? È quello che accade con “Purpose” (in italiano “scopo”, “fine”, “effetto”), la prima personale italiana di Anna Conway, alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia. Forse potrete anche non sapere nulla di questa artista, nata in Colorado nel 1973, che ha fatto del tempo una materia pittorica, visto che ha dipinto qualcosa come 26 quadri negli ultimi 15 anni, perché sarà chiaro anche all’occhio più disattento di essere di fronte a un “paesaggio” decisamente sui generis.
La minuzia, il silenzio, una vera e propria glacialità corrisponde agli scenari di It’s not going to happen like that, Devotion, Determination, Perseverance e Potential, i cinque olii su lino che sono stati dipinti nell’ultimo anno e mezzo proprio per questa mostra. C’è una fusione mistica tra reale e immaginario nelle scene dipinte da Conway, frame che – anche se estrapolati dalla realtà – sembrano portare alle fratture del linguaggio magrittiano. Ma se nel pittore belga erano i paradossi visivi a riscaldare la scena, qui è una sorta di intracciabilità generale del set: interni o esterni, connotati dalla presenza umana che resta microscopica rispetto all’inquadratura (uno spazzolino da denti, l’allevatore che dorme accanto a una mandria oceanica in Devotion, e anche la scultura di Alexander Calder piantata accanto alla nave da guerra incagliata nel terreno di Potential) ci raccontano ben poco di geografie definite, di scenari culturali: è come se l’artista, in qualche modo, fosse riuscita a recidere i fili delle sinapsi che scattano osservando, in genere, le opere d’arte.
In una conversazione con Bob Nickas, Conway spiega che per i suoi dipinti la definizione di “luogo mentale” è perfetta: «Io produco immagini di luoghi che nella mia immaginazione provengono dalla mente di qualcun altro. Anche quando dipingo un luogo banale o realistico. […] Lo spazio parla per la persona, come riflesso o estensione di sé stesso».
Viene in mente la storia di James Stewart e Kim Novak in Vertigo di Alfred Hitchcock: trappole visuali, déjà vu e, ovviamente, vertigini, in una serie di luoghi che non lasciano presagire altre presenze umane (nonostante il lungometraggio sia ambientato a San Francisco) o dialoghi.
Suona tutt’al più un sottofondo musicale poco intuibile, basso, e durante l’opening ci hanno egregiamente provato Simone Beneventi e Andrea Rebaudengo, con una galleria di brani del XX secolo scelti dai due musicisti come omaggio alle cinque tele, in un “Libero Arbitrario” tra discipline.
E torniamo a questi dipinti, che si potrebbero definire come una visione su uno stato di trance, come la capacità di focalizzare una metarappresentazione che, solo nei migliori esempi di fotografia e solo in alcuni autori, si può scoprire. E se mentre in Hopper le figure umane, nella loro tragica solitudine erano protagoniste della tela, nonostante architetture o paesaggi ingombranti, nelle tele di Conway – specialmente in quelle che compongono il corpus di questa mostra – non solo si è rarefatta la figura, ma l’atmosfera.
La pittura, come non mai, qui diventa il miglior enigma e dunque, nella sua tradizionalità – passateci il termine – ancora il medium migliore per riflettere sulle possibilità dell’arte di ri-velare un paesaggio differente, anche rispetto alla nostra contemporaneità che impone le sue tematiche, e i suoi bisogni mercantili.
E infatti non è solo un inquietante silenzio pittorico quello che avvolge la produzione di Conway, ma anche una sorta di denuncia sottile all’attività umana ingabbiata nelle logiche del potere e dunque della produzione: nell’ufficio bianco di Perseverance, l’artista spiega così l’inserimento di una delle teste dell’isola di Pasqua (unico elemento antropomorfo dipinto nel dipinto): «Il manifesto si trova nell’ufficio per ricordare a chiunque ci lavori di portare rispetto, di rendere omaggio all’impresa umana mentre trascorrono la loro esistenza di lavoro monotono in quello spazio anonimo».  E anonima, o quasi, diventa anche la scultura di Calder e l’idea stessa dei parchi per le sculture, di fronte alla vastità del cielo e della natura, o di una immensa nave come è appunto nel landscape di Potential.
Sì onirico, sì luminoso, anzi, luministico, e sì il rimando tra interni ed esterni, ma nella pittura di Conway light and air, i suoi elementi essenziali, sono ingredienti per quello che Mario Diacono, nel bel catalogo che accompagna l’esposizione, definisce un Transrealismo che lascia sospese una serie di storie delle quali non si riesce mai a trovare il culmine, riprendendo le parole della stessa artista. C’è l’accadimento del tempo, della vita e di un quid impossibile da raccontare, ma che la pittura riesce a descrivere.
In home page: Anna Conway, It’s not going to happen like that, 2013, Courtesy Collezione Maramotti, © Anna Conway
Sopra: Perseverance, 2015, olio su tavola, 76,2 x 121,9 cm, Courtesy Collezione Maramotti, © Anna Conway

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