Dopo Annette Messager, Villa Medici apre le porte al duo Yoko Ono e Claire Tabouret. Per il secondo ciclo di esposizioni “Une”, curato da Chiara Parisi, fino al prossimo 2 luglio è in mostra negli spazi di Villa Medici “One Day I Broke a Mirror”.
Appartenenti a generazioni diverse e con due approcci differenti, queste due artiste – l’una caratterizzata da una pratica multidisciplinare ed estremamente evocativa, l’altra classe 1981 fortemente legata alla pittura – hanno molte più cose in comune di quanto sembri, e dialogano con una sintonia più unica che rara.
Sicuramente la figura della donna occupa un ruolo centrale nella ricerca di entrambe, così come il tema del ruolo dell’individuo in rapporto al gruppo e alla società. Yoko Ono e Claire Tabouret si fanno così portavoce di un discorso assai più vecchio di loro, quello dell’emancipazione e della lotta alle costrizioni sociali.
La mostra si apre con l’opera di Yoko Ono Sky Tv (1966), composta da trenta monitor che trasmettono le immagini del cielo riprese da una videocamera posizionata all’esterno di Villa Medici. Rivolgendosi al cielo, la telecamera implica la necessità di considerare un mondo infinito oltre l’ego e la tensione ipnotica della televisione commerciale. Realizzato subito dopo l’apparizione del Sony Portapak, la prima videocamera portatile, Yoko Ono incornicia il cielo su un piccolo schermo e tratta il monitor televisivo come una finestra invitandoci a considerare l’universo infinito di là dal nostro piccolo mondo autoreferenziale.
Questo invito a uscire dagli schemi e a guardare il mondo da un’altra prospettiva, oltre che a rifarsi al titolo della mostra, viene riproposto dall’artista con l’opera Skyladders (1992), un insieme di scale di legno tutte con altezze diverse che occupa l’ingresso delle Grandes Galeries. Risponde Claire Tabouret con i suoi Makeup (2017), dipinti che ritraggono donne fiere, forti ma allo stesso tempo vulnerabili, con i volti ricoperti da un trucco troppo pesante e di cui non resta che la traccia ormai sbavata. Le immaginiamo togliersi con il dorso della mano il rossetto dalle labbra, come a rivendicare il loro essere donna senza il bisogno di accessori che attestino la loro femminilità. Il rossetto sbavato, nell’immaginario comune, non è solo sinonimo di sciatteria e negligenza, ma anche di violenza, altro tema fondamentale nella pratica di entrambe due artiste. I Makeup di Tabouret vengono spalleggiati dal video Freedom (1970), che mostra a rallentatore Yoko Ono nell’atto di strappare il reggiseno che indossa, quale incitazione a liberarsi dalla costrizione dei legami sociali.
La mostra prosegue con la grande tela The Team (2016), in cui Tabouret rappresenta sette donne di etnie diverse che emergono dallo stesso abito, come se prendessero vita dalla stessa terra che le ha create. Un unico corpo composto da personalità diverse che si ricollega alla ricerca dell’artista attorno al concetto della relazione tra individuo e società. Il percorso continua nei giardini dove, facendo bene attenzione a reperirla perché appositamente poco visibile, ci si imbatte nell’opera Nutopian Embassy realizzata nel 1973, nient’altro che una targhetta in rame posta sulla porta di accesso ai giardini. Ed è così che entriamo nell’ambasciata di Nutopia, paese concettuale fondato lo stesso anno da John Lennon e Yoko Ono. Luogo appartenente a tutti, senza terra, senza frontiere né passaporti, più che una vera e propria località si potrebbe definire uno stato mentale.
Da sempre pacifista militante e in aperta critica con ogni tipo di forma di guerra, Yoko Ono espone tre lavori fortemente significativi. Al centro dei giardini, superata la fontana con i serpenti, unica testimonianza del passaggio di Messager alla Villa, si trova Play It by Trust (1966-2017), una gigantesca scacchiera interattiva che funge da metafora sulla futilità della guerra. Realizzando la scacchiera completamente di bianco ed eliminando l’opposizione dei colori di un lato rispetto a un altro, Yoko Ono insiste sul messaggio di pace che l’opera incarna facendo in modo che il visitatore si ritrovi a giocare una partita senza vincitori né vinti. Segue Wish Trees (1966-2017), quattro alberi da frutto sui cui rami si è invitati a lasciare la propria traccia. Queste opere sono rappresentativi del modo in cui Ono concepisce l’arte: una forma espressiva di aggregazione ma soprattutto aggregativa in cui le opere richiedono una partecipazione attiva per essere del tutto complete. Oltre alle due opere sopra citate, ne sono un esempio Painting to be stepped on (1960) che troviamo nella prima sala, Ceiling painting (1966), la celebre opera che si fece galeotta tra Lennon e Ono, ma anche Water Event (1971) che l’artista ripropone in una versione contemporanea con la partecipazione dei Borsisti di Villa Medici.
Tornando ai giardini, nell’atelier di Balthus, Morning Beam (1997-2017) con cui Yoko Ono fa attraversare dalla finestra al suolo un centinaio di fili che evocano i raggi del sole, fa compagnia a un altro ritratto della serie Makeup di Tabouret.
Una mostra densa di contenuti e spunti di riflessione, in cui due mondi così diversi tra loro si incontrano. Un simposio dove ognuno è invitato e chiamato in causa dalle opere introspettive e a tratti inquietanti di Claire Tabouret che ci portano a interrogare la parte più intima del nostro Io, e da quelle di Yoko Ono la quale, attraverso un coinvolgimento più fisico e attivo, tocca e smuove il fanciullino che è in noi.
Quella che all’inizio era stata concepita come due mostre separate, “One Day I Broke a Mirror” è l’occasione per assistere al denso dialogo di due grandi donne, prima che due grandi artiste.
E, lungi dal mettere in discussione la qualità di entrambe, viene da pensare che se fossero state due mostre autonome, sicuramente, sarebbe andato perso quel quid che rende questa esposizione unica nel suo genere. L’esperimento, per non dire azzardo, di Parisi risulta quindi più che riuscito se si pensa che Ono e Tabouret non si sono mai incontrate e hanno lavorato alla mostra solo telefonicamente. Il risultato è un botta e risposta dinamico in cui ognuna segue il ritmo dell’altra senza cadere nel rischio di far prevalere le proprie opere su quelle dell’altra né tantomeno di risultare autoreferenziale.
Fabrizia Maselli