Il 21 giugno è la data del “solstizio d’estate”, giorno più lungo dell’anno, che segna il viaggio del sole verso l’inverno, con il conseguente ritirarsi della luce. In questa data ha preso forma Nigredo, l’intervento dell’artista Greg Jager ideato per la rassegna LASCAUX a cura di Miniera (duo curatoriale composto da Giuseppe Armogida e Marco Folco), negli spazi sotterranei, un tempo bunker antiaereo, di IT’S Hub, a Roma.
Il progetto, che nella sua natura transdisciplinare affonda le basi in questioni che intercettano antropologia, filosofia, astronomia e archeologia, intende mettere al centro l’esperienza del buio, dunque l’oscurità, l’incertezza, in una giornata in cui a regnare è la grande luce. Il titolo stesso fa riferimento al nome latino della prima fase alchemica, che rappresenta lo stato di “nerezza” iniziale del processo di trasmutazione e decomposizione della materia.
In un ambiente del tutto sospeso, dove l’agire umano sembra essere stato interrotto bruscamente, sorgono riflessioni sulla decadenza di una visione antropocentrica e sulla transitorietà dell’esistenza umana. Greg Jager interviene lasciando intatto lo spazio stesso; sono i lunghi cunicoli scavati nel tufo e il pavimento terroso a parlare della nostra natura effimera. Le piccole luminescenze delle torce degli smartphone aiutano gli ospiti nel loro incerto attraversamento, in lontananza delle luci verdastre aprono alla possibilità di addentrarsi in cunicoli laterali e stanze nascoste.
L’ambiente risuona mediante le tracce harsh/noise prodotte in situ grazie alla collaborazione con l’artista Luca Baioni. Un suono inquietante che ci conduce al termine del percorso, dove i resti di un Giano Bifronte (entità anticamente associata ai varchi spazio/temporali), realizzato in ghiaccio di color nero, testimoniano il lento disgregarsi della specie umana per come la conosciamo, per lasciare spazio ad un radicale cambiamento del pensiero. Una trasmutazione, appunto».
Durante l’esperienza di Nigredo mi è venuta in mente una parola: “ritualità”. È una tendenza correlata alla tua ricerca, in cui gli individui sono chiamati a partecipare, in maniera più o meno esplicita, a determinate azioni a cui tu attribuisci un significato simbolico. Penso in particolare a Grounded (2022), dove la rilettura del racconto mesopotamico La Discesa di Ištar negli Inferi, quindi la sfera mitica, diviene il pretesto per un’esperienza collettiva. Volendo fare un confronto tra Grounded e Nigredo ti domando quanto quest’ultimo ha del performativo e in che misura figure come Ištar o Giano, possono narrarci della società contemporanea.
«Nigredo è un progetto transdisciplinare che prende forma attraverso l’assenza di luce. L’interpretazione del buio implica quindi una richiesta, ovvero di esperirlo nella modalità che ogni singolo individuo ritiene più opportuna. Nella maggior parte dei casi il pubblico ha fatto uso delle torce degli smartphone per orientarsi: questa azione collettiva ha reso Nigredo un atto rituale, come hai facilmente notato. Gli smartphone durante l’attraversamento dello spazio diventano un elemento compositivo molto importante per il progetto, nonostante la sua natura effimera e incontrollabile. Questo aspetto ha sicuramente una componente performativa.
Per rispondere alla tua seconda domanda, la mia ricerca cerca costantemente di mettere in relazione il presente e ciò che simboleggia i suoi vuoti, con il passato, per porre speculare intorno al futuro. Alla luce di ciò mi interessa rileggere antichi culti, decostruirne il valore semantico e metterli in relazione con le conoscenze scientifiche e la tecnologia del nostro tempo per immaginare coesistenze future e nuove forme di ritualità. In quest’ottica “La discesa di Ištar negli Inferi” in Grounded ci parla della catabasi del mondo contemporaneo, per questo motivo la sua figura viene evocata attraverso una azione in cui era richiesto ai partecipanti di scavare nel terreno con le mani, per relazionarsi con una idea di “sprofondo”.
Allo stesso modo l’installazione raffigurante il Giano Bifronte in Nigredo rappresenta una entità patriarcale il cui sguardo rivolto contemporaneamente sia il passato che il futuro, esercita un potere disciplinare e normativo; ma essendo realizzata in ghiaccio è destinata a liquefarsi.
In generale credo che il passato sia un valore per il futuro nel momento in cui si lo si mette in discussione. Altrimenti si rimane imbrigliati in dinamiche di cieca glorificazione».
Il fatto che tu abbia scelto di realizzare un intervento all’interno di uno spazio desolato e buio è particolarmente significativo e si può leggere alla luce di alcune tue riflessioni scaturite dal testo di Didi-Huberman titolato Come le lucciole: Una politica delle sopravvivenze, ma anche chiamando in causa Donna Haraway e il concetto di “Compost”. In una definizione del vocabolo ho letto che, nell’accezione della filosofa, il compost è il contrario dell’accumulazione, è un “worlding” ovvero un farsi comune del mondo in cui si ragiona per decomposizione del singolo in favore di un miscuglio, di un humus di esseri viventi. Dunque, in che relazione sono la luce e l’accumulo, il buio e il compost, in Nigredo e più in generale nella tua ricerca artistica?
«Nel suo saggio, Didi-Huberman fa una netta distinzione tra due mondi: uno è irradiato dalla luce gloriosa del regno, l’altro è un mondo opaco, incerto, infestato da piccole e deboli luminescenze. Sono anime erranti, che cercano nel buio la loro libertà di movimento. Questa bellissima immagine fa riferimento ad un articolo di Pasolini pubblicato nel 1975 per il Corriere della Sera, intitolato L’articolo delle lucciole [Il vuoto di potere in Italia], in cui la scomparsa delle lucciole è da un lato una anticipazione del disastro climatico generato dal proliferare delle industrie e quindi dell’inquinamento, dall’altro lato simboleggia un repressivo conformismo sociale che minaccia anche le classi intellettuali e di conseguenza l’estinzione del libero pensiero.
Didi-Huberman prende quindi in esame Pasolini che ritorna estremamente attuale nelle questioni urgenti della nostra contemporaneità. L’efficace luce del regno è diventata capillare a causa delle tecnologie che favoriscono un regime di visibilità sempre più nitida e mediata dei nostri comportamenti. Il perturbante prolifera nel regno dell’abbagliante normalità e la domanda che pongo è: come poter hackerare sistemi pericolosamente normativi?
L’assenza di luce suggerisce infinite possibilità a riguardo: al contrario della nitidezza cristallina e addomesticata del regime della visibilità, il buio può essere uno spazio indisciplinato, un dispositivo di compostaggio e di ridefinizione del soggetto contemporaneo all’interno del mondo globalizzato. Al buio i confini diventano sfocati, i corpi si trasformano in fioche luci senza lineamenti definiti. Basti pensare agli abissi marini e alle molte specie che li popolano, dotate di bioluminescenza. Il concetto di identità, come il concetto di società, subisce un processo performativo di liquefazione. È come se, abbassando la luminosità, si abbassasse la risoluzione del mondo proiettandoci in uno spazio di sperimentazione radicale di nuove possibilità e coesistenze non ancora conosciute».
E in quest’ottica si comprende ancora di più la scelta del 21 giugno: durante la giornata più luminosa dell’anno l’invito è di fuggire da una luce abbagliante, chiedendo di fatto alle persone di diventare lucciole, di orientarsi nel buio, qualcosa che ha generato, oltre delle forme di aggregazione, l’accensione delle torce dei propri telefoni (e anche qui, volendo, si potrebbe parlare di “conformismo sociale”, non tanto per il gesto, quasi dettato da un certo spirito di sopravvivenza, quanto per il fatto di possedere uno smartphone).
«Assolutamente, la data del 21 giugno è un elemento simbolico per il progetto. Il solstizio d’estate, momento in cui il sole inverte la propria marcia diminuendo lentamente la sua forza, era interpretato in epoche pre-cristiane come un momento di sospensione in cui aleggia la fine delle cose conosciute e il giungere di un mondo ignoto. Per questo motivo nei sotterranei è presente una sorta di reperto archeologico raffigurante Giano Bifronte (divinità dai tanti significati ma sicuramente preposta alla sorveglianza delle porte spazio/temporali e quindi anche dei solstizi). Ho trovato molto poetico che l’installazione fosse realizzata in ghiaccio nero (una vera e propria agency non vivente) e che la sua liquefazione performativa, andasse lentamente a cancellare i lineamenti umani di Giano, trasformandolo in una presenza indefinita e lentamente in una mostruosa poltiglia nera, lasciando aperte tante chiavi interpretative sul futuro».
Mi domando, a questo punto, che ruolo assume il suono? Perché non il silenzio? senz’altro questa scelta rientra in una tua attitudine transdisciplinare, e in generale il suono ha già fatto parte di altri tuoi lavori, penso in particolare a Ballad of The End presso la Fondazione Rusconi di Bologna, ma come si può leggere nel quadro generale di Nigredo il paesaggio sonoro generato in collaborazione con Luca Baioni?
«La compositrice Pauline Oliveros ci insegna che il sistema capitalistico in cui siamo immersi ci ha abituati a prestare attenzione solo per le questioni orientate verso nostri obiettivi. Nella nostra società i suoni che attivano l’attenzione ha un range sempre più stretto (ad esempio allarmi sveglia, notifiche ecc…), mentre suoni come ad esempio il passaggio di un aereo, l’accensione di un’auto e ancora il canto delle cicale o il fruscio del vento, sono suoni che il nostro cervello ha imparato a silenziare. Ha senso dunque che, nell’ottica di una speculazione che ribalti il modello capitalistico di mondo, in NIGREDO “ascoltare” significa “prestare attenzione” all’ambiente circostante e ad ogni minimo evento che accade in esso. Il soundscape realizzato con Luca Baioni vuole metterci alla prova in tal senso: la presenza di suoni “alieni” vuol dire, ancora una volta, mettersi in relazione con questioni ignote».
Lo spazio e il tempo sono entrambe dimensioni esplorate in Nigredo, l’uno attraverso l’ambiente labirintico del bunker antiaereo, il vuoto in tutta la sua potenzialità e le luci verdastre; l’altro con il suono, la trasmutazione del Giano, la data del solstizio. Sono dimensioni che troviamo anche in altri lavori come ad esempio Grounded o Dismantle, rispettivamente avvenuti in un giardino, un luogo all’aperto ma un sistema chiuso, e in un’ex fabbrica di bitume e asfalto, luogo obsoleto e in bilico tra il dentro e il fuori per via della presenza di vetri rotti e aree dismesse. Questa volta ti sei confrontato con un ambiente sotterraneo, dove il tempo pare scorrere in modo diverso, e mi domando cosa ha mosso Nigredo per la tua ricerca nell’ottica di una progettualità futura.
«Succede sempre in modo non controllato che ogni progetto getta le basi per quello successivo. Scorrendo in ordine cronologico tutti i progetti che abbiamo menzionato durante la nostra conversazione potremmo dire che sono diversi capitoli dello stesso libro. Sicuramente Nigredo ha rappresentato una crescita importante sia dal punto di vista teorico che formale. Continuerò a documentarmi e studiare per sfamare la mia curiosità nei confronti del mondo e a collaborare con ricercatori, artisti e teorici per intrecciare il mio percorso con quello di altri e abbracciare scenari imprevisti».
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