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Oriente Occidente Dance Festival 2024: continua a Rovereto la riscoperta delle identità
Progetti e iniziative
di Erica Baglio
Le complessità delle relazioni e delle pluralità dei nostri tempi sono protagonisti dello studio, dell’interpretazione e delle discussioni proposte negli spazi della città da artisti nazionali e internazionali. Spettacoli, danza, musica, occasioni di incontro e di dialogo: infinite sono le prospettive che il festival (ve lo abbiamo anticipato qui) offre riguardo ai concetti di identità, rappresentazione e appartenenza.
Inquieto, dissacrante, inaspettatamente irriverente come un monologo shakespeariano dalle sfaccettate interpretazioni: Strangers in the Night gioca con la percezione di sé e dei confini autoimposti. «Questo non è l’inizio dello spettacolo, lo giuro!», inizia così – anche se in quel momento non ce ne siamo resi conto – lo spettacolo nato dall’eclettismo di Carlo Massari portato in scena al Teatro Le Cartiere il 31 agosto. «Prendete posto, lo giuro, non è l’inizio», continua Jos Baker, imbarazzato, davanti a un pubblico a cui è negato il buio in sala e il privilegio di non mettersi in discussione nei dubbi amletici che assalgono il protagonista. Iniziamo quindi a renderci conto della presenza di qualcun altro, dell’ombra di Baker, l’acrodanzatore svedese Linus Jansner, in cui il primo sembra sdoppiarsi. Verità e finzione si alternano e si imitano vicendevolmente, in un continuo mise en abyme che risucchia vorticosamente la narrazione delle diverse dimensioni in cui l’identità dell’uomo moderno, continuamente perseguitato e perennemente intrappolato nelle convenzioni che lui stesso si impone, si perde. In questa “pantomima del reale” il danzatore fatica a riconoscersi e a ricongiungersi con se stesso, frantumandosi e “risintonizzandosi” con quella che sembra la sua ombra, il suo inconscio, in una danza di corpi fluidi e irrequieti, in una sovrapposizione quasi stereoscopica di due parti della stessa personalità che però non riescono a cogliersi e a guardarsi negli occhi. L’humor dissacrante dell’esibizione, ispirata a Le Metamorfosi di Kafka, permette di affrontare il tema dello smarrimento di sé nella società moderna con ironia e leggerezza, allo stesso tempo rivelandoci apparenti verità e realtà assolutamente costruite dei nostri tempi.
Assenza di confini anche nella coreografia di Nicola Galli, Deserti Tattili, andata in scena il 3 settembre. Lo spettatore perde l’orientamento spaziale e temporale in un continuo gioco di luci, ombre, suoni e prospettive. La solitudine, il corpo rannicchiato di Galli che lentamente si avvicina a centro palco per liberarsi dalla sua iniziale forma quasi larvale, è la protagonista della performance. La silhouette si staglia su un telo, unico confine di uno spettacolo che non conosce gerarchie tra generi artistici. I suoni di una natura totalizzante, lontana e allo stesso tempo pervasiva avvolge il pubblico, che inevitabilmente si perde in un continuo stimolo di colori e ritmo. Il corpo del danzatore diventa un tutt’uno con la musica, da cui sembra quasi dipendere fino a diventarne parte integrante. Su quello che sembra un tramonto infuocato, un’altra creatura – il danzatore Giulio Petrucci – si aggira nella solitudine di questo palcoscenico che ha portato davanti ai nostri occhi l’intera esistenza: dall’alba iniziale, fino agli abissi di quelli che sembrano gli oceani più profondi. Si incontrano, si nascondono uno dall’altro, si difendono e infine si studiano fino a riscoprirsi nelle proprie diversità, a imitarsi in un ballo a due, in movimenti che si accompagnano e si sintonizzano in questa immensità desertica dell’esistenza moderna.
Eterno è il fascino del balletto russo, che continua a vivere e a conquistare nelle sue mille rivisitazioni, attraversando i secoli e le nazioni. Il 3 settembre, nel meraviglioso Teatro Zandonai, è la volta de La sagra della primavera di Stravinskij. Oggetto di infinite riscritture, rito di passaggio per ogni coreografo, portato in auge dalle movenze esotiche di Nijinsky nel lontano 1913, questa volta è Seeta Patel a cogliere la sfida. Le celebri movenze del balletto russo incontrano il BharataNatyam, una classica danza indiana. Occidente e oriente si fondono in questa rivisitazione in maniera innovativa e quasi naturale. Le percussioni delle musiche di Stravinskij accompagnano le evoluzioni percussive dei piedi sul pavimento caratteristiche del BharataNatyam, la fanciulla sacrificata agli dei viene qui elevata a divinità del tempio a cui l’intera comunità deve poi immolarsi. Suggestivo, coinvolgente e inaspettato, Le Sacre du printemps riscritto attraverso gli occhi e i corpi di Seeta Patel rappresenta la perfetta fusione e incontro di culture, momento magico attraverso cui i classici dell’arte continuano a sopravvivere e a reinventarsi fino all’eternità.
Spiega Patel, in un momento di dialogo dopo l’esibizione, di non aver mai pensato le proprie coreografie per essere degli statement politici, ma, cresciuta nel Regno Unito da genitori nati in Africa e nonni indiani, non può fare a meno di considerare questa coesistenza riuscita tra culture come “politica”. Il BharataNatyam si trova spesso ai margini dell’ambiente della danza, considerato quasi un “oggetto da museo”, congelato nella sua forma originaria. Eppure, questa danza classica indiana si è dimostrata naturalmente compatibile con la danza contemporanea occidentale, il cui incontro ha orgogliosamente permesso alla coreografa di portare alla luce la prima rivisitazione in chiave indiana di questo grande classico. The Rite of Springs è un appuntamento di Asia-Europe Cultural Festival, festival itinerante giunto alla sua sesta edizione, che quest’anno debutta in Italia ospitato nella settimana di Oriente Occidente, un vero e proprio “festival nel festival”, ulteriore occasione di confronto e conoscenza tra diverse culture.