Apre il giorno del “pesce d’aprile”, ma non è uno scherzo.
È il
Museum of Everything, il Museo d’ogni cosa. Un progetto dal nome pretenzioso,
quanto razionalmente irrealizzabile. Ma lasciamo la ragione da parte, qui
stiamo entrando nel mondo della pazzia, quella buona, intesi. La “
lucida,
visionaria follia”
che Erasmo da Rotterdam voleva come madre di tutte le idee migliori.
Certamente James Brett, collezionista e co-curatore con
Paolo Colombo della mostra, deve aver letto l’
Elogio alla follia del celebre filosofo olandese
prima di iniziare la collezione ora radunata in un museo dal nome così
sfrontato. Ma com’è nata e cos’ha di particolare questa raccolta? “
È iniziata
come un accumulo costante di cose che mi piacevano. Un hobby poco costoso,
visto che molti lavori non sono costati più di 10euro”, spiega Brett. “
Adoravo il
fatto che fossero artisti autodidatti, fuori dal mercato. In questi lavori l’arte
è vivere, in alcuni casi sopravvivere. Poi, per caso, ho trovato un articolo su
un mio omonimo, William Brett, che sull’isola di Wight ha esposto tutte le cose
raccolte nel corso della sua vita in un museo chiamato ‘The museum of
everything’. Ne rimasi affascinato tanto da chiamarlo per chiedergli se potevo
aprire un corrispettivo del suo museo a Londra, e lui acconsentì”.
Da questa omonimia, scritta non solo sulle carte d’identità
ma anche da qualche parte nelle stelle, è nata una mostra che a Londra, fra il
13 ottobre e il 23 dicembre 2009, è stata visitata da 35mila visitatori,
venendo nominata da
Artforum la mostra migliore del 2009. Mostra è però un termine
riduttivo, come dice la “padrona di casa” Ginevra Elkann: “
Non è solo una
temporanea. È un mondo sorprendente, costituito da opere inaspettate e di forte
impatto emozionale”.
Gli autori delle opere sono, infatti, persone afflitte da
disturbi psichici, handicap mentali o motori, o che hanno avuto vite difficili.
Si va da
Henry Darger, portinaio di Chicago dall’infanzia travagliata, che ha raccontato la
sua vita in un manoscritto fantastico, le
Vivian Girls, di oltre 15mila pagine, a
Billy
Taylor, nato
schiavo e considerato il primo artista di
black americano; da
Carlo Zinelli, internato in manicomio a causa
di uno shock bellico e scoperto da
Jean Dubuffet – padre dell’Art Brut – come
artista, a
Judith Scott, artista sordomuta e con la sindrome di Down, ma scultrice tra le più
importanti del XX secolo, fino a
George Wiedner, che “vede” i numeri ed è
ossessionato dal Titanic.
Detto così sembra quasi un
freak show, dove si guarda più al
personaggio da baraccone che non al suo lavoro. Sarebbe però da stupidi “guardare
al dito e non alla luna”, come dice il famoso proverbio cinese.
“
Non bisogna
fermasi ai pregiudizi”,
dice James Brett. “
Nel ‘museo del tutto’ a parlare non sono le biografie
degli artisti, ma le loro opere”. Lavori in cui, continua Paolo Colombo, “
non c’è quel
distacco tra opera e artista che c’è sempre stato. Qui le opere sono vita”. E non stiamo parlando di
artisti come
Orlan,
Gilbert & George,
Hermann Nitsch,
Joseph Beuys che, anche se in modi diversi, hanno trasformato le loro vite in opere d’arte. Negli
oltre trecento lavori di
the Museum of Everything non c’è calcolo, non c’è
consapevolezza, non ci sono secondi fini né sete di soldi o fama. L’arte torna
a essere pura, di quella purezza che hanno le incisioni e le pitture rupestri, il
frutto di una necessità interiore.
Così l’allestimento, studiato da Colombo con la stessa “
lucida, visionaria
follia” di cui
parlavamo prima, diventa un labirinto denso di domande che si affollano tra le
pareti della scatola cranica. Domande sulla vita, sul concetto di handicap e
sul significato delle parole arte e artista.
Infine, viene in mente Nietzsche, che proprio a Torino
perse il senno, e la sua frase: “
Bisogna avere il caos dentro di sé, per
generare una stella danzante”. Il consiglio: fatevi contagiare da questo caos.