29 novembre 2015

Paesaggi con rovine. E noi

 
Una mostra a Palazzo Altemps riflette sul senso e l’attualità delle rovine. Dall’arte classica a quella contemporanea, passando per il cinema. E interrogando la nostra vita

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Perché non dichiarare palesemente lo stato d’emergenza dell’arte? Quando esistono luoghi storici, musei, città d’arte e siti archeologici che sono messi sempre più a repentaglio. Che succede se le rovine non sono solo quelle incise da Piranesi o causate per via di catastrofi e cataclismi naturali e sono invece perpetrate anche da azioni militari o umane?  Come sono percepite le stesse rovine adesso? Ne subiamo ancora il fascino? 
Raccontare la mostra “Rovine” al Museo Nazionale di Palazzo Altemps, senza chiedersi tutto questo è quasi impossibile, sarebbe come sfogliare un libro di storia dall’antichità a oggi senza domandarsi perché. Ma non solo. Sarebbe anche come mettere a tacere una strana forza di attrazione insita nell’essere umano: il gusto per le rovine.
Piranesi, veduta dell'arco di Costantino e Anfiteatro Flavio, 1750, collezione Fondazione Besso, Roma

Macerie, disastri, terremoti, frammenti e ruderi: il progetto scientifico a cura di Marcello Barbanera e Alessandra Capodiferro non si limita però solo a una mostra degli “orrori”. C’è infatti un sottile fascino dietro tutto questo che già Fussli aveva capito nel XVIII secolo. La sua opera (in mostra) La disperazione dell’artista di fronte le rovine antiche dà un esempio di come in quel momento storico ci si poneva di fronte al problema delle rovine dell’antichità.
Adesso, nonostante venga alla mente lo sberleffo provocatorio del dito di Cattelan, siamo di fronte a una acuta riflessione narrata attraverso una densissima raccolta di opere. Video, foto, scene di film, sculture e frammenti, che vanno dalla bottega del Cavaceppi ai cretti di Mitoraj, passano da foto di archeologia industriale con Basilico, Siragusa, Marchand & Meffre (logo della mostra) a tele di Pannini e Guttuso,  e da scene di film storici (Kurosawa, Wenders con Il cielo sopra Berlino, Nolan) si arriva alla sala del (meraviglioso e monco) Trono Ludovisi dove si tocca l’apice del sentimento di panico di fronte alla visione della distruzione, con la scena da Roma di Fellini in cui la giornalista di fronte agli affreschi che si stanno disintegrando urla “Fate qualcosa”. 
Articolato in nove sezioni, il progetto espositivo, nato da una pubblicazione sul tema (Metamorfosi delle rovine, 2013) di Marcello Barbanera, docente di archeologia classica all’Università La Sapienza, non è fine a se stesso, ma fa parlare la rovina coi luoghi. Palazzo Altemps che lo ospita fino al 31 gennaio 2016, è uno scrigno di meraviglie e sorge esso stesso sulle rovine del Campo Marzio. Con l’obiettivo di fondere in uno stretto legame le opere della sua collezione con quelle in mostra, si instaura un cortocircuito stimolante tra antico e moderno, posto in termini di contrapposizione- unione tra il gusto della rovina e la poetica del frammento. E non solo. Si sofferma pure sul dibattito antico tra scultura restaurata o frammentaria, sul tema della ricostruzione e la bellezza dell’incompiuto, sul fascino del rudere e in generale sulle molteplici modalità in cui la storia umana e quella dell’arte si sono interrogate sulla necessità della cicatrice e sulla bellezza della ferita, sul “non-finito” e l’incompiuto.
Teatro di Pietro Consagra, Gibellina, 2011

Non è un caso se, sotto gli archi della cappella degli Altemps, si ascolta in sottofondo l’Incompiuta di Schubert. E neppure è fortuito l’allestimento a mo’ di biblioteca perduta con libri di Montaigne, Cicerone e Kavafis (per la sezione “canto delle rovine”) sui quali volteggiano leggeri fogli incisi con caratteri dorati che rimandano ai Mu’allaqa-t, i Poemi sospesi dell’età preislamica. In questi angoli insomma si rivive il sogno di Palazzo Altemps e non solo l’incubo dei disastri, il museo diventa quindi luogo magico che si presta alla contemplazione dello splendore ma insieme angolo di riflessione sulle responsabilità delle tragedie.
II punto su cui indaga l’esposizione è l’incarnazione della rovina come grande metafora dell’esistenza umana. Ma come si insiste sul valore delle rovine in quanto luogo di memoria condivisa? Come bisogna preservarla? Con quale atteggiamento? La foto esposta, Niobidi (2015) di Alessandro Celani fa inorridire. Non meno delle mura crollate di Onna nella foto Twentynineseconds di Massimo Siragusa (2009, sopra) o delle “budella” di Berlino nel film Germania Anno Zero di Rossellini
Yves Marchand e Romain Meffre, Window, Packard Motors Plant, Detroit, 2005, courtesy Polka Gallery

E la mostra sembra suggerire quanto proprio le stesse città d’arte, i siti archeologici, i musei e quelli a cielo aperto, si prestano sempre più al traffico del turismo di massa che a preservare la loro bellezza. Se cedono, come è noto, più facilmente al presunto diritto di fotografare che alla cura della conservazione. Se tutta l’arte non si arrende a un linguaggio più comprensibile, si avranno forse sempre meno paesaggi di rovine ma più paesaggi rovinati, più caccia al selfie con la Monna Lisa che attenta conoscenza e quindi tutela della sua storia. 
E infatti la storia, la grande storia della guerra e di una Germania post-bellica ha un ruolo chiave nell’operazione espositiva. Nella stanza del Palazzo che ospitava il teatro, sei pannelli per sei, fanno girare brevi episodi da vecchie pellicole. In Germania era chiamato il cinema delle macerie “Trummerfilm” ma nel film di Wim Wenders la catastrofe viene percepita anche come benevola. Lo stesso Anselm Kiefer negli anni del dopoguerra dichiarava: «Io amo le rovine perché sono il punto di partenza per qualcosa di nuovo”. 
Una riflessione globale dunque va fatta, perché se non è la Storia a far crollare i grandi monumenti della modernità o dell’antico, è lo scorrere inesorabile del tempo. “Il tempo fa presto a disfare questo mondo lasciandone tracce tenaci, frammenti di un benessere archeologico che si osserva con nostalgia». 
Germania Anno Zero di Roberto Rossellini

L’obiettivo dell’esposizione allora è riconquistare il passato, anche attraverso il semplice riconoscimento. Rivedere in un frammento, come nel caso del Torso del Belvedere (calco in mostra) o del torso in terracotta (da Parigi) di Rodin, l’essenza di una bellezza, mai perduta, può essere un nuovo inizio. Inizio che però non è una novità. Era frequente nel corso del XIX secolo “cadere in ginocchio attoniti davanti alla bellezza assoluta di un busto senza testa né arti” come è successo a Flaubert durante una visita all’Acropoli di Atene. 
Che romanzo scriverebbe oggi lo scrittore francese stando di fronte lo ‘spezzatino’ di “Kore” che arriva dal 602 a. C. proprio dalla stessa Acropoli? E di fronte alla foto alla Pistoletto del Bambino siriano di Daniele Vita che visione ne avrebbe?
La mostra si pone quindi il problema della complessità del mondo in cui viviamo, disseminato com’è di diversi tipi di rovine.  Intessuto di un passato che non sappiamo proteggere e di un futuro che sembra sempre più non venire. Ma contemporaneamente si spinge fino a provocare una contraddizione: i monumenti non hanno più il tempo per diventare rovine. A volte per la furia e il gusto che ha l’uomo di distruggere, altre volte perché distratto continuamente, in mille altre faccende affaccendato. “Fate qualcosa”.
Anna de Fazio Siciliano

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