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11
dicembre 2018
Passaggio a Glenstone
Progetti e iniziative
Incontro con Mitchell Rales e una collezione molto speciale. Integrata alla natura a pochi chilometri da Washington, e nata dopo aver “rivisto le priorità della vita”
di Maria Sensi
Opere di Calzolari, Manzoni, Merz, Fontana, Kounellis, Anselmo, Polke, Bourgeois, Pollock, de Kooning, Johns, Kelly, Baldessari, Rauschenberg, González-Torres, Burri, Klein…E poi Hirst, Pistoletto, Beuys, Boetti, Rothko, Calder, Neshat…E ancora: Goldin, Gursky, Warhol, Oiticica, Twombly, Yoshida e molti altri: ecco la raccolta Glenstone, un museo privato, immerso nel verde, a Potomac, nel Maryland (USA), fondato nel 2006 dai coniugi collezionisti Emily e Mitchell Rales.
La raccolta comprende opere del XX e XXI secolo, anche se Mitchell Rales iniziò con un quadro di Mary Cassatt (di regola i Rales acquistano lavori di artisti con almeno quindici anni di carriera alle spalle). La collezione è ospitata in un edificio di circa 2mila e 300 metri quadrati dell’architetto Charles Gwathmey (1938−2009); finora è stata visibile tre giorni a settimana, su appuntamento.
Il 4 ottobre scorso la sede ha riaperto a fronte di una spettacolare estensione di 12mila metri suddivisa in tredici padiglioni firmati dall’architetto Thomas Phifer. È visibile sempre su appuntamento (per non creare sovraffollamento di fronte alle opere, dicono i proprietari), cinque giorni a settimana.
Mitchell Rales è un imprenditore; col fratello fondò la società Danaher. A tal proposito, nel 1984, la rivista Forbes, in un articolo, li definì “predoni in calzoni corti”. Dice di aver rivisto le sue priorità di vita nel 1998, quando scampò miracolosamente a un incidente aereo in Russia: la creazione di un museo si è così concretizzata. Con Emily (sua seconda moglie, a capo della fondazione) vive a Glenstone.
Così Emily Rales ci descrive il nuovo progetto: «Abbiamo voluto espandere e completare il programma iniziato, lavorare con un architetto per creare un nuovo museo da integrare profondamente nel paesaggio. In particolare, era nostro desiderio esporre ancora più opere della collezione, ad esempio corpus che richiedono un proprio spazio. Da questi obiettivi è nato il nuovo museo Glenstone, che offre un contesto contemplativo, intimo, per godere l’arte e l’architettura in un ambiente naturale”.
Tony Smith, Smug, 1978-2005, © Glenstone
Chiediamo a Emily Grebenstein, responsabile della comunicazione, quali ne siano le caratteristiche salienti.
«I Padiglioni, costituiti da blocchi in cemento con ampie aperture in vetro, sono inseriti nel paesaggio come un elemento naturale. Dall’esterno, l’edificio sembra includere un gruppo di undici strutture in muratura separate, forse memori di una città collinare italiana. Internamente, i visitatori scoprono undici sale, ognuna con proporzioni e illuminazione diverse, collegate da un passaggio in vetro intorno a un cortile acquatico. Oltre ai padiglioni, ci sono 130 acri supplementari di prati, terreni boscosi e ruscelli, una hall d’ingresso con libreria e due bar».
Il progetto è eco-sostenibile?
«L’idea di sostenibilità ha guidato ogni fase della concezione e costruzione del nuovo museo. Abbiamo aderito ai protocolli del programma LEED (Leadership in Energy and Environmental Design) per costruire tutte le strutture rivolte ai visitatori, inclusi i Padiglioni, il bar, la hall d’ingresso e il centro ambientale. Abbiamo lavorato in modo da poter ridurre l’impatto ambientale degli impianti di riscaldamento, raffreddamento, luce e acqua. Il paesaggio è conservato con metodi esclusivamente organici: sosteniamo un’ampia serie di ecosistemi locali e manteniamo un equilibrio tra flora e fauna autoctone e le strutture museali umane».
Jeff Koons, Split-Rocker, 2000,
Parliamo ora delle linee-guida dell’allestimento.
«Le opere selezionate per l’installazione inaugurale dei Padiglioni esemplificano la filosofia della collezione. Rappresentano momenti chiave nello sviluppo artistico dopo la seconda guerra mondiale, quando la nostra comprensione dell’arte è stata continuamente ridefinita. Nove sale dei Padiglioni ospitano corpus di opere o installazioni a lungo termine di singoli artisti».
Inviterete artisti a presentare opere “site specific”?
«Per ora non abbiamo alcun progetto a riguardo. Ci sono, comunque, dei lavori site specific installati attualmente a Glenstone, come Sylvester (2001) e Contour (2004) di Richard Serra e Clay Houses (Boulder-Room-Holes) di Andy Goldsworthy (2007), fra gli altri».
Nella collezione sono presenti opere di artisti di tutti i continenti?
«Sì, anche se i lavori ora visibili appartengono ad artisti del Nord e Sud America, Europa e Asia. Aggiungeremo lavori di artisti africani e australiani con l’espansione della collezione».
Prevedete incontri con gli artisti?
«Non al momento».
Attività didattiche?
«Molte delle nostre guide partecipano al programma di professionisti emergenti, sviluppato per offrire lavoro a tempo pieno nel settore museale a giovani provenienti da diverse realtà. Le guide fungono da mediatori, interagiscono con i visitatori, rispondono alle domande, forniscono informazioni e incoraggiano discussioni sulle opere in mostra».
Che rapporto avete con le scuole?
«Glenstone ha iniziato un programma con le scuole nel 2012, che ha interessato oltre 6.000 studenti della provincia di Montgomery. C’è anche un programma in cui Glenstone rimborsa le scuole pubbliche della provincia che visitano il museo, per spese relative al trasporto in bus e insegnanti sostitutivi».
Felix Gonzalez-Torres, Untitled, 1992-1995
Ci può parlare della mostra con cui avete inaugurato il nuovo museo il 4 ottobre scorso?
«Nella sala 2, la più grande dei Padiglioni, ci sono 65 opere di 52 artisti, dal 1943 al 1989. Mostrano importanti movimenti come l’Espressionismo astratto, Gutai, il modernismo brasiliano, l’Arte Povera, il Minimalismo e il Post-minimalismo. Molte installazioni presenti a Glenstone sono state realizzate con gli artisti, tra cui due sculture monumentali di Martin Puryear Big Phrygian, 2010-2014, e The Load, 2012, evocazioni della storia, identità e lotta (nella sala 1); il trittico di On Kawara Moon Landing del 1969, che commemora l’allunaggio di Apollo 11 del 1969 (sala 3); Senza titolo, 1992, di Robert Gober, installazione presentata al Dia Center for the Arts, qui per la prima volta in mostra con un prestito a lungo termine (sala 4); Collapse, 1967/2016, di Michael Heizer (sala 5). Dello stesso artista, costruita nel paesaggio esterno al museo, è Compression Line, 1968/2016; Ever is Over All, 1997, di Pipilotti Rist, istallazione video e suono (sala 6); quattro sculture di Charles Ray: Table, 1990, Fall ’91, 1992, The New Beetle, 2005, Baled Truck, 2014 (sala 8); Livro do Tempo I, 1961, di Lygia Pape, un assemblage di 365 rilievi geometrici lignei, uno per ogni giorno dell’anno (sala 9); Moss Sutra with the Seasons, 2010-2015, di Brice Marden, un’opera su commissione che gode della luce naturale proveniente dalle finestre del claristorio (sala 10); e cinque sculture, 1951-1991, di Cy Twombly, che furono selezionate con lui (sala 11)».
Maria Sensi