Per pochi giorni ancora sarĂ possibile vedere al Grand Palais di Parigi due esposizioni dal carattere eccezionale, la prima tesa a ripercorre la carriera del fotografo Irving Penn e la seconda volta a dare spazio ad un aspetto della produzione artistica di Paul Gauguin ancora poco conosciuto.
Nome leggendario della fotografia di moda, dopo aver collaborato con la rivista Vogue per circa sessant’anni, Irving Penn (New Jersey 1917, New York 2009) è arrivato al grande pubblico soprattutto attraverso i suoi ritratti, i suoi nudi e le sue nature morte. Ma la ricchezza e la completezza del percorso espositivo parigino, realizzato in collaborazione con il Metropolitan Museum di New York, permette di immergersi completamente nell’universo di Penn scoprendone, anche molti aspetti inediti, o semplicemente poco noti, capaci però di rivelarne appieno l’essenza artistica.
La mostra si apre attraverso la sezione che ospita le fotografie di nature morte, annoverate tra le prime opere realizzate per Vogue a partire dal 1943, in cui Penn invita lo spettatore a decifrare ciò che vede. Ci troviamo dinanzi al silenzioso racconto di storie i cui protagonisti sono scomparsi o hanno lasciato solo delle tracce.
Si passa poi ai ritratti delle celebrità , tra cui Pablo Picasso, Yves Saint Laurent, Audrey Hepburn, Alfred Hitchcock, a cui il fotografo inizia a lavorare quando, appena trentenne, era ancora uno sconosciuto. I modelli gli venivano imposti dalla redazione che però gli lasciò sempre la libera scelta nell’allestimento fotografico, nella luce e nella conduzione delle sessioni fotografiche.
Alfred Hitchcock, New York 1947, stampato 1947, il Metropolitan Museum of art, New York, ha promesso il dono della Fondazione Irving Penn, © The Irving Penn Foundation
Già da i suoi primi scatti, la resa grafica e l’acutezza psicologica dei soggetti immortalati divennero i suoi tratti distintivi. Osservando queste immagini, ciò che ne emerge è l’identità profonda della persona fotografata, non più personaggio di spicco, attore o musicista, perché svelata nella sua natura, al di là delle apparenze. All’interno di questo processo di estrazione, un ruolo di primaria importanza è rivestito dal set fotografico, che nel caso di Penn è sempre costituito dall’interno di uno studio. Esso si presenta quasi sempre con uno sfondo neutro e due sole pareti che convergono ad angolo entro cui veniva posto il modello. Tali principi compositivi, che non verranno mai abbandonati nel corso dell’intera sua carriera, furono elaborati nel corso di un viaggio in Messico, a Cuzco nel 1943, dove l’artista realizzò centinaia di ritratti agli abitanti della zona.
La sala tematica dedicata ai Petits Métiers è forse quella che reca con sé più magia, perché qui il legame con la tradizione della pittura e della stampa “di genere” si fa più vivo che mai. A partire dal 1950, infatti, Irving Penn comincia, sempre per Vogue, una lunga serie di ritratti dedicata ai mestieri. Artigiani, cuochi e mercanti ripresi come dei modelli, con le loro divise, i loro strumenti di lavoro e le loro merci. In queste scatti l’emergere delle singole personalità arriva, forse, ai vertici della produzione dell’artista.
La sua fu una vita spesa nella ricerca della resa di volti, delle silhouette e delle posture con l’intenzione di donare alle sue fotografie la stessa forza dei quadri degli artisti a cui si ispirava, tra cui Goya, Doumier e Toulouse-Lautrec. Avendo deciso di non lavorare mai in esterna egli ricercava, all’interno delle quattro pareti, quella luce e quel senso di intimità che gli consentissero di tirare fuori l’anima dei soggetti ritratti, fossero anche “solo” dei vestiti.
Donne di Tahiti, Paul Gauguin, 1891 © Nmr-Grand Palais (Museo D’ Orsay) / immagine nmr-GP
Curioso pensare che all’età di venticinque anni, dopo le scuole pubbliche, il fotografo lasciò il suo lavoro per recarsi in Messico a dipingere e che, tuttavia, dopo poco, si rese conto che non sarebbe mai divenuto un grande artista decidendo, quindi, di partire per New York dove nel 1943 sarebbe divenuto l’assistente di Alexander Liberman, direttore artistico della rivista Vogue.
Irving Penn un artista, un maestro della fotografia, lo è poi diventato davvero, attraverso il suo senso del disegno, della resa plastica, del sapiente uso della luce e grazie a quella resa di espressività istantanea capace di individualizzare e di dare la vita anche a un abito, a un cappello, a un bicchiere di cognac.
«Credo […] nella verità dell’arte unica e indivisibile» scriveva Paul Gauguin (Parigi 1848, Hiva Oa 1903) all’interno di un suo manoscritto. E su questa scia si proietta invece l’esposizione Gauguin l’alchimista, che presenta al grande pubblico una serie importante di opere che nei manuali sarebbero come definite come facenti parte della “produzione minore” dell’artista, noto principalmente per i suoi dipinti. La storia dell’arte, lo si sa, classifica, definisce, stabilisce e differenzia per periodo, stile, genere, tecnica e lo fa attraverso tanti altri parametri, ma questo spesso impoverisce e svilisce il carattere di un intero percorso e in questo caso specifico quasi lo annienta.
Al Grand Palais troviamo allestite, quindi, le cosiddette sperimentazioni dell’artista, capace di trasformare e plasmare i più diversi materiali attraverso un approccio che oggi chiameremmo pluridisciplinare, o alchemico.
La belle Angele, 1889, olio su tela (c) Nmr Grand Palais
Considerato come uno dei maggiori esponenti del post-impressionismo Gauguin è celebre soprattutto per la sua pittura di matrice primitivista. Opere come Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, quelle della fase tahitiana, sono ciò che meglio lo connotano e lo rendono riconoscibile nell’immaginario collettivo. Eppure, quest’esposizione ci dimostra proprio quanto la sua altra produzione, fatta di ceramica, legno, incisione e disegno sia stata fondamentale nell’ambito del suo processo di maturazione, inducendolo spesso verso sentieri inesplorati. Manipolando e mescolando materiali diversi Gauguin seguiva di pari passo l’evoluzione del suo io interiore, spinto dalla ricerca di un altro possibile.
I suoi orizzonti artistici si ampliarono inizialmente a contatto con gli impressionisti grazie ai quali si avvicinò all’uso di nuovi strumenti espressivi, e fu certamente la visione della Ballerina di quattordici anni di Degas che lo stimolò a realizzare i suoi primi ritratti di fanciulli in cera.
Lungo le sei sezioni espositive ci sono presentate anche la lavorazione del legno e soprattutto della ceramica, in cui Gauguin ridefinisce, ad esempio, le regole della collaborazione tra ceramista e artista. Egli inizia, infatti, a seguire personalmente tutte le fasi della produzione, compresa quella della cottura, inventando così una nuova pratica chiamata “scultura ceramica”.
Tribesman with Nose Disc, New Guinea, 1970, printed 2002, The Metropolitan Museum of Art, New York, Promised Gift of The Irving Penn Foundation, ©The Irving Penn Foundation
L’importanza di una mostra come questa risiede, quindi, nel fatto che essa permette di approcciarsi a Gauguin rivelandone la sua profonda essenza, ovvero quella di un uomo la cui personalità era incline a superare limiti, barriere e vincoli. Egli, infatti, non volle mai inserirsi completamente entro il tracciato di una precisa corrente artistica. Dall’impressionismo, e in seguito dal cloisonnisme e dal primitivismo, seppe attingere solo quegli insegnamenti che poterono rivelarsi utili alla sua continua evoluzione.
Questo mobilismo sotto il profilo artistico si riflette pienamente, come già detto, nelle sue vicende biografiche. Già all’età di due anni, infatti, Gauguin era in viaggio per il Perù e qui visse fino all’adolescenza per poi imbarcarsi su una nave mercantile che fece scalo nei porti più importanti del mondo. Divenuto adulto, l’artista maturò un marcato sentimento di ostilità e rifiuto nei confronti della società moderna di stampo occidentale e iniziò a ricercare nei suoi continui cambiamenti di residenza (Bretagna, Martinica, Arles, Tahiti, Isole Marchesi) un mondo primitivo, arcaico, selvaggio, non corrotto.
Dietro questo continuo viaggiare, oltre ai motivi di natura economica e personale, vi era un bisogno di nutrirsi di nuovi stimoli, di superare le convenzioni di una realtĂ che lo opprimeva.
Ecco perché fare luce sulla sua intera produzione artistica si rivela oggi quanto mai fondamentale.
Gauguin in veste di alchimista, ovvero di colui che trasforma, muta e crea a partire da materiali diversi è la sintesi perfetta della sua vita e di tutto ciò che egli realizzò, sotto il profilo umano prima ancora che artistico.
Arianna Piccolo