Una pianta officinale, detta anche “erba stellata”, è lo spunto per il titolo di una mostra che si è aperta sotto il segno di Arte Fiera e che prosegue a Palazzo Vizzani-Sanguinetti. Cinque artisti (David Casini, Cuoghi Corsello, Dado, Claudia Tosi e T-yong Chung) in cui ogni singola opera esposta è pensata in relazione alle altre e in funzione della luce, per l’esaltazione di una serie di ambienti che risultano “naturalmente immersivi”…Abbiamo intervistato il curatore, Fulvio Chimento.
Alchemilla è una mostra collettiva di cinque artisti: puoi descriverci, in breve, le particolarità di ognuno?
«David Casini re-interpreta in chiave contemporanea il patrimonio comune della storia dell’arte, tra i suoi lavori in mostra sono presenti due opere ispirate direttamente ai cataloghi di Picasso e un’installazione, Geometrie per un canone rovesciato IV, che prende spunto dal Compianto su Cristo morto, realizzato da Niccolò dell’Arca nella seconda metà del XV secolo. Il procedere artistico di Claudia Losi si distingue per un’analisi ferrea relativa alla condizione umana, agli aspetti topici legati all’esistenza, all’habitat e al paesaggio (interiore ed esteriore). In occasione di Alchemilla l’artista espone tre lavori, tra cui spicca Asking Shelter, una raffinata scultura in argento e bronzo di piccole dimensioni, che costituisce un prototipo essenziale di abitazione, formato da rovi. La casa, simbolo ancestrale di protezione, diviene un luogo impervio: la natura stessa mostra la sua effettiva ambivalenza. In T-yong Chung è forte l’attrazione per la statuaria classica: per lui è sempre fondamentale la nozione di “vuoto”. Il vuoto come origine del tutto, spazio che circonda la materia. In mostra sono presenti busti in gesso, calcografie e stampe su tessuto: tecniche differenti per aspirare a un medesimo ideale di equilibrio».
Loggiato esterno. Claudia Losi, Dopo il Danubio/Le carpe del mercato/Guardano carpe, 2001, coperte militari, imbottitura, 7 elementi, 190×70 cm ca.; courtesy l’artista e Monica De Cardenas Gallery. Ph. Cuoghi Corsello 2019
Cuoghi Corsello e Dado?
«Sono artisti di grande forza espressiva, in grado di dare vita a momenti di rarefazione e sospensione, dotati di destrezza nel comporre con gli oggetti. L’arte, per loro, si manifesta sotto forma di urgenza e di continuità temporale, le loro opere sono pensate in divenire, si modificano con il tempo, niente è mai totalmente definito e tutto può essere riscritto. Insieme a Cuoghi Corsello e Dado abbiamo iniziato un percorso che ha preso vita con il progetto Ailanto, allestito in forme sempre differenti a Modena (Biblioteca Poletti, 2016), Palermo (Orto Botanico, 2016) e Roma (Parco archeologico Appia Antica, 2018, dove abbiamo invitato Stefano Arienti e Rusty)».
Quale caratteristica, in particolare, accomuna gli artisti in mostra?
«La capacità di pensare la contemporaneità in forma tridimensionale, la presenza di una componente concettuale riconoscibile, la dimestichezza nell’adattare il proprio lavoro alle esigenze dello spazio, la permanenza di una sapienza manuale. Gli artisti invitati presentano delle differenze marcate, ma il risultato finale dell’allestimento di Alchemilla è omogeneo, come se tutta la mostra fosse stata realizzata da un’unica mano».
Scultura e parola sono i due elementi chiave della mostra. Puoi fornirci qualche dettaglio in più a riguardo?
«Una frase dello scrittore e poeta svizzero Edmond Gilliard, definito “un artigiano della parola” dal filosofo ed epistemologo francese Gaston Bachelard nel suo libro La poetica della rêverie costituisce il punto di partenza di Alchemilla: “Se fossi più sicuro del mio mestiere metterei fuori fieramente la mia insegna: ‘Qui si puliscono le parole…’. Scrostare parole, lustrare vocaboli: duro, ma utile mestiere”. La comprensione di questi termini permette di intuire come il lavoro del poeta sia basato su una scelta accurata dei vocaboli adatti per la composizione del verso, così come il mestiere dell’arte trova compimento in una ridefinizione della materia in forma astratta. Tale suggestione poetica è coerente con il ruolo da protagonista della forma scultorea. L’idea è stata quella di trasformare le stanze di Palazzo Vizzani-Sanguinetti in una sorta di “bottega”».
Sala della porta dorata. Dado, Inside the cube, 2019, piani in plexiglass, acetati, colori su vetro, luci a led, basi in metallo 81x40x40 cm; courtesy l’artista. Ph. Cuoghi Corsello 2019
Puoi descriverci l’allestimento?
«I lavori artistici dialogano nelle otto sale del palazzo come fossero parole, lette o sussurrate, che “circolano nella penombra e gonfiano i tendaggi”, per parafrasare un verso del poeta francese Louis Émié, che riflette l’atmosfera e il fil rouge dell’allestimento in questi ambienti disabitati da molti anni. Le sculture di Alchemilla sono in relazione tra loro, si muovono nelle atmosfere austere e decadenti, si rincorrono, trasformando lievemente il proprio senso originario. Ma ogni artista all’interno del percorso riesce a ritagliarsi dei focus in grado di concentrare l’attenzione».
Visto il pregio degli ambienti ospitanti avreste potuto caratterizzare maggiormente il luogo. Perché non lo avete fatto?
«La mostra cambia radicalmente in relazione alla luce, nelle varie fasi del giorno. Gli scuri in legno delle finestre rimangono aperti in modo che l’”esterno” possa penetrare nella mostra, sia come luce sia come suoni provenienti dalla strada. Ogni sala ha una propria identità, illuminazione e atmosfera, che accuratamente evita qualsiasi forma di teatralizzazione del luogo. L’atmosfera della mostra è volutamente austera, per evocare il fascino legato alla decadenza del potere, che chiama in causa la storia delle famiglie nobiliari bolognesi. Ma le opere degli artisti hanno il compito di “ossigenare” il luogo: l’arte è sempre connessa alla vita, l’esperienza dell’immaginazione rinnova (e riflette) il senso dell’esistenza».
Come definiresti il tuo ruolo? Curatore, critico, creativo?
«Preferisco definirmi curatore. Mi avvicino al mondo dell’arte contemporanea attraverso una formazione letteraria e poetica, i progetti che seguo hanno un taglio preciso già dalle prime fasi di elaborazione. La scelta del luogo è sempre funzionale al tipo di mostra che ho in mente di progettare. Apprezzo lo scambio creativo che si innesca con gli artisti, mi piace lavorare in gruppo, analizzare un progetto da angolazioni differenti. In questo modo il piano di confronto diviene il principale oggetto d’analisi di una mostra. Poi, inevitabilmente, bisogna saper rischiare, assumersi delle responsabilità, e saper prendere decisioni nette in grado di caratterizzare la proposta espositiva».
Pavimento della Sala di Lulù con particolari lignei del basamento che sorregge la scultura Iron di Dado. Ph. Cuoghi Corsello 2019
Alchemilla in che rapporto si pone con Ailanto?
«Alchemilla ha una spiccata vocazione femminile, più stratificata e riflessiva, mentre Ailanto, un progetto “infestante” come la pianta da cui prende il nome, è più gestuale e istintivo: le due mostre sono emisferi di una stessa coscienza. Alchemilla è una sorta di “fonderia”, che mette in scena l’alchimia misteriosa del processo artistico, le forme scultoree vengono accolte ma subiscono un lieve processo di rifrazione. Ailanto si impossessa dello spazio e lo domina, Alchemilla crea un vuoto per viverci dentro, un vuoto che risulta naturalmente immersivo, senza ricorrere a espedienti tecnologici. Ailanto e Alchemilla sono progetti liberi, trasversali, che nascono senza una finalità pre-determinata, se non quella – ambiziosa – di sorprendere».
Le tue mostre sono come esseri viventi in continua mutazione…
«Credo che tutte le componenti di una mostra possano essere messe in discussione fino all’ultimo, anche il nome stesso di un’opera o addirittura il titolo stesso del progetto, possono cambiare in base al contesto. L’arte (o una mostra) non è il frutto di un processo logico dotato di un inizio e di una fine prestabiliti. Nel Parco dell’Appia Antica a Roma per Ailanto, per esempio, abbiamo allestito alcuni lavori di Stefano Arienti dopo un mese e mezzo dall’inaugurazione, mentre altre opere, dopo diversi mesi di esposizione all’aperto, hanno subito radicali trasformazioni (e qualche danneggiamento), caricandosi di nuovo senso. Mettere in scena la frammentazione, la debolezza interiore dell’arte, è uno dei tratti distintivi del mio percorso».
Maria Chiara Wang