Qual è la mission di Performa?È quella di scrivere e teorizzare il nuovo capitolo della
performance nelle arti visive del XXI secolo. In realtà si divide in tre
sezioni: prima di tutto, come storica, volevo riesaminare la storia della
performance del Novecento. Il testo che scrissi a riguardo [
Performance Art: from Futurism to the Present, 1979, N.d.R.] e presentai al The Kitchen di New
York ha appena compiuto trent’anni! Partiva dai futuristi, un movimento così
radicale che non si sa da dove iniziare a spiegarlo… Portare l’arte fuori dai
musei? Dagli atelier? Nelle strade? Non dimentichiamo che la gente indossava
ancora gonne lunghe, bustini e cappelli!
In secondo luogo, volevo creare un’organizzazione dedita
solo alla performance che troppo spesso, soprattutto nelle grandi
manifestazioni, come documenta o nelle biennali, è relegata ai margini. Invece
è importante creare un contesto giusto per apprezzarla: con lavori di artisti
time-based come Pierre Huyghe, Shirin
Neshat, Isaac Julian, Steve McQueen o Mika Rottenberg bisogna spendere tempo,
senza interruzioni.
Infine, il terzo obbiettivo è quello di commissionare
nuove performance, anche invitando artisti che non hanno mai lavorato in questo
campo. Ritenevo che nell’ultimo decennio non fossero state realizzate
performance di un impatto e di un’intensità paragonabili a quella di opere
d’arte dello stesso periodo. Insomma, dopo aver visto Shirin Neshat alla
Biennale di Venezia del 1999 ho pensato: non sarebbe fantastico farla uscire
dalle pareti e farla entrare nello spazio? Così, nel 2001-02 abbiamo prodotto
la prima performance.
Performa s’identifica solo con la biennale o
organizzate altri eventi?Principalmente s’identifica con la biennale, ma c’è anche
altro. Ad esempio, la divulgazione mediante seminari e conferenze dei temi che
ci stanno a cuore. Aspiriamo a diventare quasi una piccola università della
performance. Nel 2004 abbiamo organizzato
Not For Sale, una serie di conferenze molto
importanti. Riflettiamo costantemente su come presentare le produzioni, quale
sia il retaggio storico. Oppure quale sia l’approccio curatoriale. Non c’è
molto materiale disponibile a tal proposito, i musei non hanno un dipartimento
o specialisti di performance!
All’inizio del 2009 il MoMA ha inaugurato un nuovo
dipartimento per media e performance art… Ispirandosi a voi?Infatti. Ho sempre pensato che Performa potesse costituire
una sorta di sezione distaccata per musei. Una risorsa formativa su come si
produce una performance, che tipo di fondi sono necessari, come si preserva.
Stampate anche pubblicazioni?Certamente. È stata un’altra ragione per fondare Performa.
Ci siamo posti il problema di come inglobare temi inerenti alla performance ma
trattati da altre discipline come film, danza, teatro,
costume design, architettura. Abbiamo anche una
didattica per giovani critici,
Writing Live, e poi per ogni edizione abbiamo
un libro, altrimenti, se non si mette nero su bianco, tutta la documentazione
svanisce…
Perché creare una biennale?All’inizio non volevamo neanche chiamarla biennale, perché
ne avevamo già parecchie! E l’idea era quella di creare un museo senza muri. Ma
la novità di questa biennale è che gravita interamente sulla città di New York.
Non ci limitiamo a qualche edificio ma invadiamo a tappeto! Per la scorsa
edizione avevamo 60 luoghi diversi e 20 curatori.
Strutturalmente come si differenzia da altre biennali?Credo che l’elemento urbano sia molto forte. Sia a livello
di funzionalità che di coinvolgimento del pubblico.
Ed è anche internazionale sotto il profilo di curatori,
artisti…Assolutamente sì. Ad esempio, lo scorso anno sono stata a
Manifesta e poi a Milano, dove ho conosciuto due curatrici, Caroline Corbetta e
Barbara Casavecchia, a cui ho parlato della prossima edizione e dell’intenzione
di includere il tema del Futurismo.
Per
Performa
09 hanno
curato due progetti, una performance di Marcello Maloberti a Washington Square
Park e una collaborazione tra Ragnar Kjartansson e Alterazioni Video. Magari ci
sarà anche un seguito con alcuni progetti che viaggeranno verso Milano.Cosa differenzierà la terza edizione?Introdurremo delle collaborazioni con il mondo della danza
e soprattutto celebreremo l’anno dei Futurismo. Il mio libro, infatti, inizia
proprio dal 1909, e l’idea di riferirmi a quel
momento mi sembrava molto interessante. Apre lo sguardo sui temi del femminismo,
della politica, della danza, dei film e di tutto ciò che appassionava Marinetti
& Co. La sua idea di multidisciplinarità è geniale! E poi lui era un
professionista della comunicazione.
Non c’è nulla di letterale però nell’intenzione di
ispirarci al Futurismo. L’approccio è questo: se i futuristi fossero qui, come
si relazionerebbero con il nostro presente e con il futuro? Gli artisti
invitati hanno letto il
Manifesto e sono stati ispirati in modi diversi. Abbiamo anche in
programma una splendida collaborazione con l’Istituto italiano di cultura e
festeggeremo poi il
Manifesto Futurista della Lussuria.
E il banchetto futurista dello scorso febbraio?Fantastico! Abbiamo celebrato con tante performance
durante tutta la serata. Uno chef ha preparato cibo e bevande futuriste,
servite con tanto di lavanda sul collo. E poi declamazioni a tema…
I progetti che commissionate sono il vostro fiore
all’occhiello…Sì, cerchiamo progetti con una nuova forma di vitalità,
che provochino un’esperienza intensa. Un altro elemento molto importante è come
produciamo le performance, con impegno e dedizione dalla a alla zeta: dal
budget alla scenografia, le luci, i costumi, troviamo residenze, organizziamo
gli spazi per le prove… Insomma, non diamo un premio e poi arrivederci! Alla
fine, dopo la produzione, c’è la presentazione dell’opera in un luogo
prestigioso, curato nei minimi particolari. Come ha dichiarato Adam Pendleton
in un’intervista rilasciata a proposito della sua straordinaria performance,
chiediamo agli artisti una sola cosa: di essere ambiziosi!
Che spazi avete per questa edizione?Un’ampia gamma. Abbiamo creato un consorzio di
organizzazioni che include, tra le altre, lo Sculpture Center, il The Kitchen,
il P.S.1, lo Studio Museum in Harlem, il Bronx Museum…
Su quale budget potete contare?Praticamente su nulla! Contiamo sullo svegliarci ogni
mattina con tanta buona volontà di cercare fondi. Pian piano alcune fondazioni
come la Warhol Foundation ci stanno aiutando, ma perlopiù dipendiamo dalla
generosità di singoli appassionati che credono in ciò che facciamo.
Avete risentito della crisi economica?Certamente, ma siamo così agli inizi che non possiamo
retrocedere di molto… Stiamo ancora cercando finanziamenti, fino all’ultimo
secondo. Anche per questa edizione il budget è di circa 1,4 milioni di dollari.
Le origini e la tradizione della performance sono
legate a posizioni radicali e anticonformiste. Le sovrastrutture contemporanee
(festival, biennali, fiere, mercato, collezionisti, aste ecc.) possano
asfissiarla?È una domanda interessante, che mi sono posta sin
dall’inizio. Quando nel 1979 ho finito il libro e sono andata a lavorare a The
Kitchen ho pensato: “
Oh, non è curioso che dopo aver scritto tanto sul
radicalismo contro le istituzioni ora ne diriga una?”. Ma, dopo trent’anni, penso di
esser la prova vivente che anche lavorando all’interno non ci si debba per
forza istituzionalizzare. Performa si prende il rischio di produrre nuovi
lavori esponendosi in prima linea ed è incredibile perché, nonostante ci sia
un’organizzazione alle spalle, reinventa se stessa ogni giorno con un nuovo
progetto.
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meno male che esistono anche curatori in italia che puntano a valorizzare i nostri artisti italiani in mostre importanti all'estero.
chiediamoci perché una gallerista come raffaella cortese, considerata in qualche modo un interlocutore del sistema, pur spostandosi con difficoltà oltre milano, non abbia in realtà mai sostenuto a livello internazionale un artista mid-carrer di buon livello come maloberti.
Casavecchia e Corbetta sostenitrici dell'arte italiana all'estero... ma stiamo parlando delle stesse persone? e lo fanno attraverso Maloberti? Un artista stracotto in Italia da propinare all'estero. La situazione mi sembra molto più personalistica (le due curatrici) e sporadica nell'insieme
è anche lei un artista/curatore invidioso?
casavecchia scrive sempre di artisti italiani su repubblica e corbetta ha appena curato la personale di vezzoli al moderna museet di stoccolma...