Tutto è cominciato nel 1968 quando un giovane Gianni Piacentino compra una moto da corsa vintage, la restaura e ne rimane conquistato, tanto da incentrare tutto il suo lavoro d’artista sia sulle linee filanti di aerei veicoli esteticamente affascinanti ma non funzionali che su strutture geometriche monocrome dagli insoliti colori industriali.
La Fondazione Prada di Milano inaugura la stagione autunnale con una grande personale, curata da Germano Celant (fino al 10 gennaio), di questo artista che per molto tempo è stato considerato dall’establishment un outsider. Gianni Piacentino, nato a Coazze in Piemonte nel 1945, iscritto a Filosofia a Torino, dove per due anni ha seguito i corsi di estetica di Gianni Vattimo, che ha però subito abbandonato per dedicarsi totalmente al mestiere d’artista. Giovanissimo, ad appena 21 anni, espone in una mostra che è rimasta una pietra miliare della storia dell’arte contemporanea italiana: la collettiva “Arte Abitabile”, inaugurata nel giugno 1966 nella galleria torinese di Gian Enzo Sperone dove Piacentino presenta le sue prime strutture scultoree, fra cui Blue, Purple Big L, Triangle, Dark Dull Pink Large X, Silver Small Pole e Silver-Gray Table Sculpture, insieme a Piero Gilardi, che poco dopo lascerà l’arte per dedicarsi all’attivismo politico e a Michelangelo Pistoletto che presentava i suoi “Oggetti in Meno”.
Ma come mai in un momento di temperie artistica fecondo come quello della Torino degli anni ’60 in cui le ricerche e gli stili sembravano confluire in un’unica direzione, il giovane Piacentino, senza aver mai visto le opere del Minimal americano incomincia a realizzare dei lavori che sono il contraltare italiano di quel tipo di ricerca formale? In quella prima metà degli anni Sessanta, proprio a Torino, la prima città industriale di Italia, si stava formando quell’incredibile gruppo di artisti poi battezzati da Germano Celant, dell”Arte Povera”. Gianni Piacentino, il più giovane e meno stilisticamente uniformato del gruppo, muove quindi i primi passi sul palcoscenico del contemporaneo con dei compagni di strada del calibro di Paolini, Calzolari, Pistoletto, Gilardi, Zorio (che era l’assistente di Pistoletto), Fabro e Anselmo e, infatti, nel 1968 partecipa alla collettiva “Arte Povera”, curata dallo stesso Celant, alla Galleria dè Foscherari di Bologna. Proprio nel biennio 1967/1968, Piacentino lavora in una fabbrica di vernici dove approfondisce scientificamente il suo interesse per i cromatismi e le finiture lucide e specchianti dei colori industriali. Questo sua passione per l’estetica perfetta e rifinita e l’uso libero del colore fin dagli esordi ha avvicinato il suo lavoro a quello degli artisti del West Coast Minimalism, cioè il Minimalismo californiano più levigato e rifinito di quello della East Coast, che in quegli anni produce alcuni artisti eccellenti come John Mc Cracken e Robert Irvine.
Era chiaro che un Minimalismo geometrico e raffinato con una ricerca estetica del colore e della finitura come quelli che Piacentino modula nel suo lavoro risulta in netta antitesi con l’estetica poverista degli artisti che in quel momento in Italia sono considerati mainsteam ed è per questo che, dopo la rottura con Gian Enzo Sperone nel 1969, Piacentino decide di correre da solo, inseguendo un suo ideale artistico rigoroso e preciso che lo farà apprezzare all’estero (dal 1970 comincia la sua collaborazione con la galleria Onasch di Berlino e la Konig Galerie di Ginevra, nel 1972 ha una personale al Palais des Beaux-Arts di Brussel e nel 1977 partecipa alla Documenta 6 a Kassel). In Italia, invece, lo considerano in maniera marginale in Italia, non perdonandogli un’indipendenza creativa “troppo” vicina al design industriale.
Tutta l’opera di Piacentino si potrebbe definire come una “apoteosi della meccanica”, che inizia come una riflessione sulla pittura e sulla struttura architettonica del quadro, anche lui come Giulio Paolini mette a nudo il telaio che tiene tesa la tela ma ne ingigantisce gli elementi strutturali come non si era mai visto. Emblematiche a questo proposito sono opere come i grandi Monocromi dai colori opalescenti e sapientemente cromati come delle carrozzerie di lusso, o la serie delle Aste che, altro non sono, che le parti ingigantite dello scheletro di un quadro. Poi, nel ’68, la svolta scultorea che lo porta a realizzare una serie di modelli di veicoli aerodinamici a due o tre ruote ognuno “firmato” con il “brand” GP (Gianni Piacentino), una scelta questa decisamente coerente con l’amore dell’artista per un’estetica pulita e perfetta che sarebbe stata “sporcata” da una firma: «Ho cominciato a mettere le mie iniziali perché la firma mi ha sempre disturbato. È un problema che l’industria ha già risolto», dichiara. La firma diventa quindi un Logo, che emula nella grafica quelli di MG, Ford e Fiat, in modo da eliminare qualsiasi tipo di evidenza autobiografica per dare all’opera quell’aurea di apparente fredda impersonalità.
Il percorso della mostra è diacronico si comincia con i lavori più recenti del 2015 e si conclude con gli anni ’60. Sono 100 lavori che occupano i due piani del podium: le prime quattro sale sono dedicate alla velocità e alle strutture areodinamiche di tricicli, ali e veicoli da corsa che sembrano usciti dalle officine meccaniche dove i fratelli Wright sperimentavano la possibilità che un velivolo potesse effettivamente sfidare la gravità.
L’allestimento architettonico è geometrico e minimal come le opere esposte, nei muri divisori delle feritoie (la Fondazione Prada appare completamente “ristrutturata” per questa mostra) permettono ai visitatori di guardare da una prospettiva diversa le opere della stanza successiva. Parafrasando Duchamp del Grande Vetro quelli di Piacentino sono veicoli celibi perché privati della loro funzione e messi a nudo nella loro struttura. Al piano superiore i monocromi, le barre e i lavori geometrici dalle incredibili texture cromatiche concludono il percorso espositivo.
Un’occasione imperdibile per vedere l’opera di un artista più vicino alla natura tecnica delle cose che a quella organica .
Paola Ugolini