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25
marzo 2009
PORNOVIENNA
Progetti e iniziative
Tutte in un sol colpo, gomito a gomito, al MuseumQuartier. Quattro mostre di velluto grigio che - come certe mosche di un vecchio thriller - possono rimanere a lungo attaccate alla retina. Forse non proprio tutte, ma per una la cosa è certa. E il grigio è un colore che ci va a pennello, purché sia scuro, dark, in sintonia con le più tenebrose pulsioni erotiche, spudorate, maniacali. E chi l’ha detto che la cosa non fa più scandalo?
Metti una sera al MuseumsQuartier. Quattro mostre al nastro di partenza, in simultanea: due esposizioni al Mumok, una al Leopold Museum e un’altra alla Kunsthalle. Ovvero, le tre maggiori istituzioni di arte visiva acquartierate in questo eccellente distretto culturale viennese. La rivalità non era dichiarata, ma la sfida c’è stata ugualmente, anche perché nomi e titoli dei singoli eventi non potevano passare inosservati. Chi l’avrà vinta? Non ci sono dubbi, si capiva al volo.
Come non pensare a un pubblico delle grandi occasioni per Nam June Paik al Mumok? In realtà, una mostra focalizzata su una rievocazione Fluxus di ambito germanico, primi anni ‘60 del Novecento. Sottotitolo stuzzicante: Musica per tutti i sensi. Ma documentaristica e purtroppo limitata, riuscita appieno solo nel dispiegamento di un accurato disordine.
Intanto, in altre sale dello stesso museo, prendeva il via una mostra affettuosamente dedicata a un’eroina di casa ma di fama internazionale, Maria Lassnig, splendida novantenne, con un’apparizione non rievocativa, non antologica. Semplicemente con una larga selezione di dipinti di questi ultimi anni, tanto per ribadire che la pittura non è morta e che il talento creativo, il vigore espressivo, inclusa una caustica ironia, se ci sono, non conoscono età pensionabile. Non per nulla, lei era reduce dal successo di una recentissima mostra americana curata, tra gli altri, da Hans Ulrich Obrist.
Competente e molto composto il pubblico del Leopold Museum, luogo che, insieme alla sua collezione permanente, è interessato a movimenti e personaggi del primo Novecento, noti o da riscoprire. Ma non è certo una riscoperta l’accoppiata Ernst Barlach e Käthe Kollwitz, per un commovente riabbraccio postumo: lui espressionista tedesco di gran classe, dedito soprattutto alla scultura; lei sua compagna di vita, disegnatrice raffinatissima.
Ed eccoci, finalmente! Ecco l’ideale candidatura a un prestigioso Turner Prize – se esistesse – del più politicamente scorretto. Già, stavolta l’ha fatta proprio grossa quella “canaglia” di Gerald Matt, il fantasioso, geniale direttore della Kunsthalle, mettendo in scena The Porn Identity. Spedizione nella zona scura. Leggasi: tutto quello che avreste voluto vedere (o non vedere) del sex-show più osceno che possa esistere, ma non avete mai osato… È anche vero che questa mostra è il culmine, inatteso ma non incoerente, di un percorso iniziato qualche anno fa con l’intento, da parte del museo e del suo direttore, di portare alla ribalta fenomeni e protagonisti della scena artistica pop e underground, o tendenze di costume della società massmediatica, soggetti di rilievo per una mappatura antropologica del secondo Novecento e oltre.
L’inaugurazione faceva il pieno, mentre nella zona più oscura delle sale – oscura quanto a intensità di luce – Matt, il direttore, scivolava solitario e sornione tra il pubblico per una verifica del faccia a faccia con la “zona scura”, quella enunciata nel titolo, quella ad alta performatività di corpi ingaggiati in attività etero-omo-sado-masochiste. E buona visione a tutti.
L’inizio del percorso espositivo è tagliente e ironico, con il feticcio algido di una dea dell’hardcore (Korova Milkbar, dal film Arancia meccanica) di Stanley Kubrick e, quasi di rimpetto, la famigerata Vedova del corridore (1957/2007), una bicicletta da corsa dallo strano sex appeal, attribuita a Robert Müller e storicamente annoverata tra le “macchine celibi”.
“Che cos’è una macchina celibe?”, si era chiesto a suo tempo il surrealista Michel Carrouges, divenuto il massimo studioso di tale categoria, ben sapendo che il conio terminologico fosse un’invenzione di Marcel Duchamp, avendolo riferito al suo arcano capolavoro detto Il Grande Vetro. Diabolica la definizione che Carrouges stesso ne dà: “Una macchina celibe è un’immagine fantastica che trasforma l’amore in meccanica di morte”.
Analogamente, la struttura portante dell’identità porno sembra esser costruita sullo scambio reciproco organico/inorganico, poiché le pratiche hard esigono una gestione del corpo modellata sul ritmo e il rendimento della macchina. Pertanto, la mostra mette subito in gioco intriganti opere e installazioni di artisti di rilievo, di cui fanno parte anche Nathalie Djurberg, Edward Kienholz & Nancy Reddin Kienholz, Angela Bulloch, Tom Burr, Monica Bonvicini, Carolee Schneemann. E, immancabilmente, Marcel Duchamp con Ruota di bicicletta (1913), anello necessario ad allacciare una catena di rimandi e allusioni.
Dopo di che la svolta, con la mostra che propone un denso, assillante crescendo di scene hard, il cui medium è costituito da schermi che mostrano filmati del tipo reperibile nei pornoshop a uso e consumo privato, pseudo-clandestino. Comuni schermi pendono dall’alto, sospesi a un’altezza che rende facilmente agibile la visione a più spettatori, seppure il percorso tenda a farsi tortuoso e di conseguenza a porre il pubblico in situazione di (quasi) contatto fisico.
Con l’invito alla cerimonia del voyeurismo collettivo, The Porn Identity vuole proporre il punto forte e più significativo del percorso nel momento in cui il “senso comune” viene – o dovrebbe venire – allo scoperto in relazione all’osceno. Al contrario, ne risulta un punto debole, per ovvie ragioni. L’ambito del museo, per quanto momento essenziale della visione critica, si profila come spazio confinato e circoscritto a un pubblico ristretto e prevalentemente avveduto, luogo catartico a circuito chiuso. Oltretutto, qui l’oscuramento delle sale, allusivo di una discesa nei meandri bui della psiche per sondare il cortocircuito terminale tra estetica ed erotica, si può invece intendere come ulteriore contributo a un “aureo” isolamento della fruizione. Esperimento di laboratorio, dunque, il cui contesto è lontano dallo spazio sconfinato della realtà mediatica, al quale può corrispondere una variegata platea “guardona”, modulata sullo share del “grande fratello”.
Se la morale vuol essere che il porno ha una diffusione esasperata e acritica nel mondo contemporaneo, beh, questo è innegabile. Ma pare che il fenomeno, in qualche modo, sia sempre esistito, veicolato da quei mezzi tecnici e rappresentativi che ogni epoca ha avuto a disposizione. Verifica attendibile del principio che “il mezzo è il messaggio”. Il passo ulteriore della nostra epoca, semmai, è quello di aver introdotto il fenomeno “porno” nel circuito della sfera estetica.
Come non pensare a un pubblico delle grandi occasioni per Nam June Paik al Mumok? In realtà, una mostra focalizzata su una rievocazione Fluxus di ambito germanico, primi anni ‘60 del Novecento. Sottotitolo stuzzicante: Musica per tutti i sensi. Ma documentaristica e purtroppo limitata, riuscita appieno solo nel dispiegamento di un accurato disordine.
Intanto, in altre sale dello stesso museo, prendeva il via una mostra affettuosamente dedicata a un’eroina di casa ma di fama internazionale, Maria Lassnig, splendida novantenne, con un’apparizione non rievocativa, non antologica. Semplicemente con una larga selezione di dipinti di questi ultimi anni, tanto per ribadire che la pittura non è morta e che il talento creativo, il vigore espressivo, inclusa una caustica ironia, se ci sono, non conoscono età pensionabile. Non per nulla, lei era reduce dal successo di una recentissima mostra americana curata, tra gli altri, da Hans Ulrich Obrist.
Competente e molto composto il pubblico del Leopold Museum, luogo che, insieme alla sua collezione permanente, è interessato a movimenti e personaggi del primo Novecento, noti o da riscoprire. Ma non è certo una riscoperta l’accoppiata Ernst Barlach e Käthe Kollwitz, per un commovente riabbraccio postumo: lui espressionista tedesco di gran classe, dedito soprattutto alla scultura; lei sua compagna di vita, disegnatrice raffinatissima.
Ed eccoci, finalmente! Ecco l’ideale candidatura a un prestigioso Turner Prize – se esistesse – del più politicamente scorretto. Già, stavolta l’ha fatta proprio grossa quella “canaglia” di Gerald Matt, il fantasioso, geniale direttore della Kunsthalle, mettendo in scena The Porn Identity. Spedizione nella zona scura. Leggasi: tutto quello che avreste voluto vedere (o non vedere) del sex-show più osceno che possa esistere, ma non avete mai osato… È anche vero che questa mostra è il culmine, inatteso ma non incoerente, di un percorso iniziato qualche anno fa con l’intento, da parte del museo e del suo direttore, di portare alla ribalta fenomeni e protagonisti della scena artistica pop e underground, o tendenze di costume della società massmediatica, soggetti di rilievo per una mappatura antropologica del secondo Novecento e oltre.
L’inaugurazione faceva il pieno, mentre nella zona più oscura delle sale – oscura quanto a intensità di luce – Matt, il direttore, scivolava solitario e sornione tra il pubblico per una verifica del faccia a faccia con la “zona scura”, quella enunciata nel titolo, quella ad alta performatività di corpi ingaggiati in attività etero-omo-sado-masochiste. E buona visione a tutti.
L’inizio del percorso espositivo è tagliente e ironico, con il feticcio algido di una dea dell’hardcore (Korova Milkbar, dal film Arancia meccanica) di Stanley Kubrick e, quasi di rimpetto, la famigerata Vedova del corridore (1957/2007), una bicicletta da corsa dallo strano sex appeal, attribuita a Robert Müller e storicamente annoverata tra le “macchine celibi”.
“Che cos’è una macchina celibe?”, si era chiesto a suo tempo il surrealista Michel Carrouges, divenuto il massimo studioso di tale categoria, ben sapendo che il conio terminologico fosse un’invenzione di Marcel Duchamp, avendolo riferito al suo arcano capolavoro detto Il Grande Vetro. Diabolica la definizione che Carrouges stesso ne dà: “Una macchina celibe è un’immagine fantastica che trasforma l’amore in meccanica di morte”.
Analogamente, la struttura portante dell’identità porno sembra esser costruita sullo scambio reciproco organico/inorganico, poiché le pratiche hard esigono una gestione del corpo modellata sul ritmo e il rendimento della macchina. Pertanto, la mostra mette subito in gioco intriganti opere e installazioni di artisti di rilievo, di cui fanno parte anche Nathalie Djurberg, Edward Kienholz & Nancy Reddin Kienholz, Angela Bulloch, Tom Burr, Monica Bonvicini, Carolee Schneemann. E, immancabilmente, Marcel Duchamp con Ruota di bicicletta (1913), anello necessario ad allacciare una catena di rimandi e allusioni.
Dopo di che la svolta, con la mostra che propone un denso, assillante crescendo di scene hard, il cui medium è costituito da schermi che mostrano filmati del tipo reperibile nei pornoshop a uso e consumo privato, pseudo-clandestino. Comuni schermi pendono dall’alto, sospesi a un’altezza che rende facilmente agibile la visione a più spettatori, seppure il percorso tenda a farsi tortuoso e di conseguenza a porre il pubblico in situazione di (quasi) contatto fisico.
Con l’invito alla cerimonia del voyeurismo collettivo, The Porn Identity vuole proporre il punto forte e più significativo del percorso nel momento in cui il “senso comune” viene – o dovrebbe venire – allo scoperto in relazione all’osceno. Al contrario, ne risulta un punto debole, per ovvie ragioni. L’ambito del museo, per quanto momento essenziale della visione critica, si profila come spazio confinato e circoscritto a un pubblico ristretto e prevalentemente avveduto, luogo catartico a circuito chiuso. Oltretutto, qui l’oscuramento delle sale, allusivo di una discesa nei meandri bui della psiche per sondare il cortocircuito terminale tra estetica ed erotica, si può invece intendere come ulteriore contributo a un “aureo” isolamento della fruizione. Esperimento di laboratorio, dunque, il cui contesto è lontano dallo spazio sconfinato della realtà mediatica, al quale può corrispondere una variegata platea “guardona”, modulata sullo share del “grande fratello”.
Se la morale vuol essere che il porno ha una diffusione esasperata e acritica nel mondo contemporaneo, beh, questo è innegabile. Ma pare che il fenomeno, in qualche modo, sia sempre esistito, veicolato da quei mezzi tecnici e rappresentativi che ogni epoca ha avuto a disposizione. Verifica attendibile del principio che “il mezzo è il messaggio”. Il passo ulteriore della nostra epoca, semmai, è quello di aver introdotto il fenomeno “porno” nel circuito della sfera estetica.
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Nam June Paik – Music for all Senses
Maria Lassnig – Das neunte Jahrzehnt
MuMoK – Museum Moderne Kunst
Orario: tutti i giorni ore 10-18; giovedì ore 10-21
Ingresso: intero € 9; ridotto € 7,20/6,50
Info: tel. +43 152500; fax +43 152500-1300; info@mumok.at; www.mumok.at
dal 13 febbraio al 25 maggio 2009
Ernst Barlach / Käthe Kollwitz
Leopold Museum
Orario: tutti i giorni ore 10-18; giovedì ore 10-21; martedì chiuso
Ingresso: intero €10; ridotto € 6,50
Info: tel. +43 1525700; office@leopoldmuseum.org; www.leopoldmuseum.org
dal 13 febbraio al primo giugno 2009
Porn Identity. Expedition into the Dark Zone
Kunsthalle Wien
Orario: tutti i giorni ore 10-19; giovedì ore 10-22
Ingresso: sabato e domenica: intero € 8; ridotto € 5,50; da lunedì a venerdì: intero € 7; ridotto € 4,50
Info: tel. +43 1521890; fax +43 1521891217; office@kunsthallewien.at; www.kunsthallewien.at
MuseumsQuartier
Museumsplatz 1 – 1070 Vienna
[exibart]
finalmente un pò di antipocrisia