È proprio il caso di ripartire da “dove eravamo rimasti”, come fece Enzo Tortora nel lontano 1987. Ricordate quella mostra antologica dedicata al collettivo Claire Fontaine che avrebbe dovuto tenersi a Genova, nella sfortunata Villa Croce, più o meno l’estate scorsa? C’è, esiste, finalmente habemus La borsa e la vita (fino al 5 maggio). E mentre a Palazzo Ducale la curatrice Anna Daneri si muoveva per concretizzare il progetto, Villa Croce faceva ancora la bella addormentata andata per la tangente. E non schioda da quel ruolo.
Cambia la sede, ma non Genova in background, perfetto corollario sociale sul tema – preventivato a suo tempo – soldi/economia/vita, in una città che è stata la prima a veder nascere un sistema bancario. Pecunia e potere riletti nel luogo più appropriato, e in questo senso la Loggia degli Abati di Palazzo Ducale dà la sua spinta di sapidità, Daneri dice «Trattandosi della sede del potere locale ha aggiunto valore all’operazione di Claire Fontaine». Sul piano pratico il trasloco ha avuto altre ricadute, aggiunge la curatrice «Abbiamo operato una selezione diversa, a Villa Croce era molto più leggera», e di conseguenza a spazi completamente diversi «Si è dovuto di fatto lavorare ad una nuova mostra» continua. Scusate, ma non poter riutilizzare nulla del lavoro progettuale approntato in precedenza pure a voi pare il colmo per un artista di questo tipo, che lavora abbondantemente sul riuso artistico del ready made – «Anche il nome Claire Fontaine, ripreso dalla marca di quaderni, è un ready made» puntualizza Daneri – e che racconta di aver pure recuperato il grigio alle pareti della mostra precedente? C’est la vie.
Claire Fontaine – Yoda – 2016 – courtesy l’artista e Galleria T293, Roma
La borsa dei titoli che salgono e scendono, ma anche quella da cui ognuno nel proprio piccolo tira fuori i soldi per comprare, magari lottando per far quadrare il bilancio casalingo. La borsa, mito per addetti ai lavori che incide a tappeto in una società fondata sulla vacuità nominale del denaro, e sulla conseguente produzione di una proprietà privata. «Questa mostra riflette su come le nostre vite vengano dettate dalle leggi economiche» chiosa Daneri, concentrandosi pertanto su un presente appeso al valore sociale e arbitrario assunto dagli oggetti. Merce che ci rappresenta, che materialmente o immaterialmente scambiamo, doniamo come fa l’artista col pubblico esigendo la gratuità per questa mostra, e mettendolo davanti a installazioni “da asporto” che instaurano un rapporto di mutua partecipazione seguendo il metodo di Félix González Torres, a sua volta un omaggio all’artista nell’omaggio totale. Una mise en abyme generalizzata in cui l’interazione di ogni lavoro è costantemente legata al ready made più ampio e avvolgente di tutti, il site specific Newsfloor, una pavimentazione made in Sole 24 ore “economica” sotto tutti i punti di vista, che segna il tempo della lavorazione (qua e là spunta la data del 5 marzo), oltre a quello della sua evidente deperibilità dovuta al calpestio, quantificando in maniera rudimentale l’afflusso del pubblico. Sulle prime l’operazione è un cinquanta e cinquanta di curiosità e spiazzamento, stride dissociandosi dal contesto blasé della location da gran evento, proprio perché «Il giornale in terra è sintomo di una precarietà, lo si usa quando ad esempio si fanno dei lavori» spiega Claire Fontaine. Passata quindi la fase “fa strano”, ogni singolo foglio si cala nel pezzo, apre le sue immagini come dei virtuali pop-up, regola le lancette di un orologio mondiale che va avanti spinto dall’economia del lusso e dello status symbol, dalla moda, alla tecnologia, al settore automobilistico.
Nell’ampia selezione di opere – più di quaranta, con un andazzo che riesce ad essere multitasking senza risultare confusionario – la pittura gioca un ruolo cardinale. Soprattutto non mente, è sé stessa, must have cui ogni collezionista aspira, soprattutto quando è monocroma come i Begging paintings, dove il segno ampio degli stracci utilizzati per produrli è una delle poche – se non l’unica – azione propriamente autografa del collettivo. Turbinio di sfumature, i Begging paintings sono opere in cui il movimento produttivo si tramuta in prodotto, traino di una catena che dal gradino basso della questua porta ai massimi livelli del commercio, allegorie del soldo per un’arte contemporanea che interviene latente nel sistema economico, calamitando euro – e non metaforicamente, dietro c’è proprio una calamita – in monetine dal valore massimo di cinque centesimi. Spiccioli che nel portafoglio danno un fastidio inaudito, ma anche base pressoché virtuale di un giro d’affari a molti più zeri, nonché fondamento dei desideri privati di chi li butta – riportando la moneta da valore economico a simbolico – in siti appositi come l’iconica Fontana di Trevi, o di fortuna come la fontanella sotto casa. Analizzando l’essenza propria dei Wishing paintings, ad esempio nella grossa tela azzurrina con la sua nebulosa di monetine, è lecito quanto logico pensare che la modernità abbia conferito al soldo il ruolo di un laico ex-voto.
Claire Fontaine – Untitled (Secret painting) – 2007 – courtesy l’artista
I medium si cedono il passo, dallo slogan No present tracciato in un neon bianco con cui Claire Fontaine più che al minimalismo chiama l’anonimato, dice «Potrebbe essere stato fatto da Nannucci come qualunque altro artista», al risparmio che Recession sculpture confeziona come frode casalinga nel taroccamento del contatore del gas tramite aspirapolvere. L’oggetto “quadro” però resta un perseverante fondamento simbolico. Non a caso «La pittura è uno dei medium che resiste di più alla sua commercializzazione» secondo Claire Fontaine, che aggiunge «Il monocromo va su tutto». Più che una parete a reggere il quadro, è quest’ultimo a sostenere sul suo telaio tutto un sistema economico sommerso nell’economia artistica, di cui il Fresh monochrome è affermazione e negazione allo stesso tempo in quanto sviluppato proprio per non durare. Di Claire Fontaine ci piace quel praticare un’azione disturbante sulle logiche dettate dai “padroncini” del contemporaneo, senza perdere credibilità, anche se ciò significa correre il rischio di accendere una faida interna al sistema. E Claire Fontaine si ama guardando un Fresh monochrome, apologia della ieraticità dell’opera d’arte, e sintomo della perversione imposta da una modernità che ti cresce abituandoti al guardare e non toccare. Perché sei ad una mostra e non è cosa, perché le regole del vivere comune te lo vietano in caso di proprietà privata, perché quella pittura nasce come anti-intrusione, ed è il dono di una fregatura sguinzagliare la sua attraente superficie gloss per costringere a frenarti. O l’atto di valorizzare il libero arbitrio, facendo dono alla contemporaneità del mito di Ercole al bivio: non toccare e preservare la propria integrità, o toccare e sporcarsi, avvalorando quel cortocircuito sociale per cui al divieto si risponde con la trasgressione dello stesso?
Le mani – per dirla alla Audrey Hepburn – sono il nostro biglietto da visita, e Claire Fontaine non ha qui certo lesinato sulla loro importanza: toccano, prendono, chiedono l’elemosina, sono ancestrale veicolo di scambio economico. Orchestrano buone norme divenute gesti automatici e sintomatici, come utilizzarne una per nascondere il pin della carta allo sportello del bancomat, arma di difesa primaria per la persona fisica, quanto per la sua situazione economica. Che è bene tenere nascosta, poiché è altrettanto bene che nessuno ti “faccia i conti in tasca” come si suol dire. I soldi si fanno ma non si dicono, non se ne parla troppo in pubblico, quanto il sesso rappresentano una sorta di tabù, con loro «C’è quasi un rapporto osceno» afferma Claire Fontaine.
Claire Fontaine – Untitled (Money trap) – 2015 – courtesy l’artista e Galleria T293, Roma
Dalle mani al dito, che ora andremo ad infilare nella piaga: Palazzo Ducale idealmente calza a pennello, è una location di per sé catalizzante, ma è anche un’oggettiva rogna considerato che storicamente questo tipo di contemporaneità artistica non è pane per il suo core business, né per il suo pubblico. Claire Fontaine tuttavia dal canto proprio risponde con opere che al netto del loro concettualismo non stufano, anzi possono accendere l’interesse di una platea più ampia rispetto ai soli consumatori d’arte (molto e non vetero) contemporanea. Il resto è questione di saperci fare a livello curatoriale creando gli incastri giusti, ficcando ad esempio tra gli assegni incorniciati della serie Trust, in mezzo al loro essere un valore potenziale divenuto opera d’arte, il verismo di situazioni familiari come può essere la classica “vasca” in centro. Altra mise en abyme, scena nella scena di una passeggiata in cui potreste incrociare millantati personaggi che millantano d’essere artisti di strada, e che in realtà sono delle vere Living statues del collettivo, esempi di performance upside-down riguardo cui Claire Fontaine racconta «Abbiamo studiato il sistema di sospensione durante il cambio tra due artisti in strada». Con Pinocchio e Yoda potete farvi un selfie, oppure ragionare sull’ambiguo rapporto tra dono e proprietà, dal basso del tipico contenitore pronto a riempirsi di spicci, possessivamente ben legato da una catenella antifurto. Il collettivo ha messo in piedi una pantomima perfetta in ogni dettaglio: l’artista si offre in dono come finta statua in attesa di un altro dono, un’altra offerta, scambio che compiendosi produce nuova proprietà monetaria pronta ad immettersi nel sistema economico. Ma se è la statua ad essere vera, e la persona dentro finta, quello che vediamo non corrisponde a nessun canone preordinato. Il cliché si rompe, Pinocchio stavolta starà mica dicendo la verità?
Nella discrepanza tra realtà e finzione, tra quello che si vede e quello che esiste senza essere evidente, lì in mezzo c’è Claire Fontaine. Che piegando dieci dollari “gocciolanti” sfrutta la banconota all’uso narrativo, come se la coniasse una seconda volta. Nel caso particolare di questa antologica la rilavora, ready made nel ready made, toccando – con la vacuità del suo essere solo un pezzo di carta – la falsità di certe immagini, che inevitabilmente producono una circolazione di aspettative. I dieci dollari “sponsorizzano” la mostra, sono ovunque, sono giganti. Nel percorso tornano ad essere una banconota da dieci dollari, in più defilata in un angolo, sorretta da due miseri chiodini. Un’opera quasi inavvertibile. Un’icona a nudo, quando l’icona stessa è spesso un’amplificazione della realtà, e la realtà che esiste tra la borsa e la vita è altrettanto spesso una costruzione studiata a tavolino dai mass media, avvezzi a coniare miti da spendere più o meno lungamente nel tempo. Gli esempi potete tirarli fuori da voi, Claire Fontaine a questo punto ha già fatto la sua parte.
Andrea Rossetti