PRIVATAMENTE JAN

di - 29 Aprile 2017
Non è cosa di tutti i giorni vedere una mostra in anteprima e farsela raccontare dall’artista in persona, soprattutto se l’artista è un grande artista, e soprattutto se l’artista in questione è Jan Fabre. Siamo a Venezia, per una preview di “Glass and bone sculptures 1977-2017”, evento collaterale della Biennale. Di Jan Fabre si è scritto moltissimo, da molti anni. Ha realizzato miriadi di mostre, in Italia, nel mondo, ha realizzato dozzine spettacoli teatrali, performance di 24 ore come Mount Olympus – To glorify the cult of tragedy, andato in scena anche al Teatro Argentina di Roma, in occasione di Romaeuropa nell’ottobre 2015, mentre la prossima sarà a settembre a Parigi.
Eppure ogni volta Fabre riesce a stupire lo spettatore, anche quando si presenta con una mostra che è una sorta di antologica, con lavori che ripercorrono quarant’anni anni di attività, tutti accomunati da due soli elementi, il vetro e le ossa.
Lo incontro nel chiostro dell’Abbazia di San Gregorio, dove la mostra è già pronta. Febbricitante e disponibilissimo: un uomo -e artista – d’altri tempi.
In mostra come in questo caso anche altre volte, sono presenti teschi, scarabei, animali e scheletri di vario genere: deja vu delle pitture fiamminghe del passato. Gli faccio notare questa cosa, gli dico che mi sembrano simboli di una iconografia preesistente: «I fiamminghi sono artisti fantastici, importanti, grandissimi: sono artisti contemporanei, io mi ispiro a loro, sempre». Sono d’accordo con lui, profondamente; gli dico che la mattina ho visto il ciclo di Sant’Orsola, eseguito da Vittore Carpaccio tra il 1490 e il 1495, alle Gallerie dell’Accademia, e gli faccio notare quanto quei lavori, quei capolavori, siano simili alle nostre performance attuali. Ci troviamo d’accordo, niente è più contemporaneo di alcune scene che arrivano dal passato.
Gli chiedo se non sia stanco di realizzare mostre in questa città, bellissima ma certamente difficile. Lui mi ricorda di avere realizzato la sua prima mostra a Venezia quasi una vita fa, nel 1984: aveva 23 anni, un giovanissimo artista. Rappresentò il Belgio alla Biennale. Da allora è tornato tante volte, nove, sempre con molto entusiasmo. Mi dice che ha cominciato a pensare a questa mostra circa tre anni fa, ed insieme a Giacinto di Pietrantonio, uno dei curatori della mostra con Katerina Koskina e Dimitri Ozerkov, ha girato la città in lungo ed in largo: «Alla fine abbiamo trovato questo luogo. Cercavo uno spazio adatto, un posto dove avessero vissuto dei monaci, silenzioso, intimo».
Ed ecco qui, una mostra con oggetti di vetro, con opere realizzate ad Anversa, ma anche con lavori creati da Berengo, la più importante vetreria della zona di Murano. Mi racconta che è proprio lì che solo pochi giorni fa ha finito quella che è la prima opera che si vede al centro del chiostro, che è il simbolo del suo lavoro: uno scarabeo con un albero di alloro posto al centro della corazza, simbolo di vita eterna, che non obbedisce al ciclo delle stagioni; una corazza che difende la fragilità. Vetro ed ossa quindi, elementi antichissimi, e fragili.
Il lavoro più vecchio presente in mostra si intitola The Pacifier, ed è datato 1977: è un ciuccio per bambini realizzato in vetro ed ossa. Là dove il bambino dovrebbe ciucciare, per trovare dunque calma e relax, l’artista ha posto dei piccoli pezzi di vetro. È la mia opera preferita, e timidamente glielo dico, e Fabre con gioia mi dice essere pure la sua! «Perché e un’opera fortemente simbolica, e che con il tempo non perde la sua freschezza ma nemmeno il suo cinismo».
Parliamo poi dell’esigenza degli artisti contemporanei di raccontare le storie del momento, le tragedie di oggi. Mi dice che spesso si tratta di cavalcare il presente, e che lui invece già nel 1991 aveva realizzato una imbarcazione totalmente composta di ossa, e proprio in Congo, dove pochi anni dopo ci sarebbe stata la Seconda Guerra del Continente Nero, che durò dal 1998 al 2003. Eppure è una nave che sembra contemporanea, una nave dei e per i rifugiati, una nave che – non a caso – in mostra è posta affacciata su un lato dell’Abbazia che lascia lo sguardo all’orizzonte della laguna, all’acqua.
Mi prendo ancora qualche secondo per fare l’ultima domanda, per chiedergli di questo laboratorio dove lui lavora, che prestissimo diventerà una Fondazione, dove ha invitato oltre 75 colleghi, da Marina Abramović a Bruna Esposito ad Alberto Garutti, ad esporre, e a mettere a disposizione dei giovani artisti capolavori visibili dal vivo, «Perché un conto è vedere le opere su un monitor, altro è vederle dal vivo. Una grande opportunità per i giovani artisti, non credi?», mi risponde. Come dargli torto?
Dopo i saluti e i ringraziamenti mi rifaccio un giro per la mostra in solitudine. Intensa, bella, di grande respiro. Ogni lavoro sembra essere stato creato per quel posto; ogni spazio, ogni angolo di “Glass and bone” richiede tempo e silenzio. Tra lavori realizzati tanti anni fa che sembrano, appunto, creati oggi, e nessun bisogno di seguire un filo rosso ma, anzi, con la libertà di camminare avanti e indietro senza bisogno di sapere nulla delle opere. Parlano da sole.
Sabrina Vedovotto

In alto: Jan Fabre, Copyright: Angelos bvba, Photo: Stephan Vanfleteren

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