Patrimonio artistico, identità culturale, propaganda politica, tutela: sono questi i nodi centrali che formano la trama della bella mostra intitolata “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova”, allestita a Roma presso le Scuderie del Quirinale fino al 12 marzo 2017. Curata da Valter Curzi, Carolina Brook e Claudio Parisi Presicce, l’esposizione racconta una storia tanto complessa quanto avvincente legata alle conseguenze del ritorno in Italia, tra il 1815 e il 1817, di gran parte dei capolavori di arte antica e moderna che durante le campagne militari napoleoniche (1796-1814) erano stati requisiti e trasferiti in Francia per dar vita al grande Museo del Louvre.
Nel ripercorrere una vicenda che risale a due secoli fa, la mostra affronta anche temi di stretta attualità perché induce a riflettere sullo statuto dell’opera d’arte e sulla sua utilità pubblica, sul ruolo del museo quale strumento di educazione del cittadino e sull’importanza del patrimonio culturale nella costruzione di un’identità comune, nazionale o europea.
Apparentemente, infatti, la vicenda dei capolavori requisiti dalle truppe napoleoniche può sembrare simile ai tanti saccheggi perpetrati nel corso dell’umanità dai vincitori, quando il bottino di guerra era esibito come un trofeo. Ma in realtà – secondo la tesi (convincente) sostenuta dai curatori nei saggi pubblicati nel bel catalogo Skira – sebbene un aspetto trionfalistico non sia certo estraneo alla vicenda, vi sono in questa operazione delle importanti novità . In particolare Napoleone fa rientrare nelle clausole dei trattati di pace la spoliazione di opere d’arte dai territori conquistati e affida a una speciale commissione di esperti la scelta degli oggetti da inviare in Francia.  Per quale motivo? Proprio per sottolineare che non di furto si tratta, ma dell’esercizio di un diritto. In questo senso appaiono esemplari le parole pronunciate dal pittore rivoluzionario Barbier nel 1794 in un discorso alla Convenzione: «I frutti del genio sono il patrimonio della libertà » e dunque «è in seno ai popoli liberi che deve restare la traccia degli uomini celebri».  Parole rivelatrici, che riflettono un’ideologia allora diffusa, secondo la quale la Repubblica francese, patria della libertà e dell’uguaglianza, non poteva che essere anche la patria delle arti e delle scienze, mentre i sovrani, colpevoli di tenere il popolo in schiavitù, erano indegni di custodire i «frutti del genio». La Repubblica era dunque l’erede legittima dei tesori dell’umanità .
Nel 1798, durante la Festa della Libertà , viene quindi inaugurato a Parigi il Museo universale (ribattezzato nel 1803 Musée Napoleon), nel quale affluiscono le opere di arte antica e moderna requisite durante le campagne militari dell’esercito napoleonico. In questo modo non solo Parigi spodestava il primato culturale di Roma, ma grazie al progetto di un museo europeo si poneva addirittura quale garante della civiltà occidentale. L’idea stessa di museo, del resto, cambia notevolmente, passando da luogo frequentato da un’élite, a spazio della cittadinanza, destinato non solo a custodire la produzione del genio, ma anche a educare il popolo. E non è casuale, in quest’ottica di esaltazione della Storia in funzione della nazione francese, che il direttore del Louvre, Dominique Vivant Denon, abbia scelto di ordinare le collezioni secondo un percorso cronologico e non secondo l’allora diffuso raggruppamento per temi e soggetti.
La sconfitta di Napoleone e il Congresso di Vienna (1814-15) mettono fine in Francia al sogno del Museo universale, ma intanto l’idea che i frutti dell’ingegno rappresentino il patrimonio culturale di una nazione (e dell’umanità ) si propaga in tutta Europa, cambiando per sempre il modo di guardare al museo e all’opera d’arte, considerata adesso soprattutto per il suo valore di bene pubblico, più che religioso.
Questa lunga introduzione è però solo l’antefatto della mostra, il cui racconto inizia con il ritorno in Italia dei capolavori di arte antica e moderna sottratti dai francesi allo Stato pontificio e agli altri Stati della Penisola. Protagonista dell’operazione di recupero è lo scultore Antonio Canova che, per certi aspetti, prefigura gli eroici «Monuments Men», impegnati nel recupero delle opere razziate dall’esercito di Hitler, il quale a sua volta inseguiva il sogno di creare a Linz il Führermuseum.
Ordinata lungo i due piani delle Scuderie del Quirinale, l’esposizione presenta al piano terreno alcuni dei capolavori restituiti, tra cui sfilano magnifici dipinti di Raffaello e del suo maestro Perugino, di Tiziano, Veronese, Tintoretto, Correggio, dei Carracci, Guido Reni, Guercino, Domenichino e alcuni esemplari di sculture antiche, come il Laocoonte e l’Apollo del Belvedere, documentati attraverso calchi in gesso. Emerge così con precisione il gusto di un’epoca educata al culto dell’antico e al mito di Raffaello, cui si affiancavano i maestri veneti del colore e i pittori della scuola bolognese del Seicento.
Il secondo piano offre un percorso più articolato dedicato: alla riscoperta, avviata da Vivant Denon, dei cosiddetti «Primitivi», con splendidi «fondi oro»; alla nascita delle pinacoteche pubbliche legate alle Accademie d’arte, con i casi di Bologna, Venezia e Milano; alla tutela del territorio e all’affacciarsi di una coscienza collettiva esemplificata dal caso della donazione, nel 1827, alla Galleria dell’Accademia di Ravenna, per «decoro della Patria», della lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli (1525) opera di Tullio Lombardo.
Conclude il percorso espositivo un raffronto tra la Venere Italica (1809-11) realizzata da Canova per onorare il genio della Nazione e lo sconsolato dipinto di Francesco Hayez, raffigurante L’Italia del 1848 (1851), una bellissima popolana, fiera ma dolente, metafora della delusione risorgimentale. Un’immagine che lascia altresì aperta la riflessione sul valore identitario delle opere d’arte e su come oggi ne vada intesa la tutela e la valorizzazione.
Flavia Matitti