Due esposizioni accompagnano la primavera della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, il cui spazio espositivo è diviso tra la mostra collettiva di video arte “I see a darkness”, e “Quarters”, prima personale in Italia della giovanissima artista dei Paesi Bassi Magali Reus. Accomunate nel proporre un dialogo tra esterno ed interno, le due mostre partecipano a quel modo di interpretare lo spazio dell’arte come luogo dinamico, di formazione ed esposizione, aperto allo scambio tra fruitori, passanti e professionisti del settore, cifra caratteristica della fondazione torinese.
Il percorso inizia con “I see a darkness” che raccoglie sette opere di video arte realizzate da altrettanti artisti di calibro internazionale, ed è caratterizzata dall’atmosfera minimale, buia e silente interrotta dai fasci luminosi delle proiezioni ospitate in tre sale contigue. Composto da cinque diverse proiezioni e altrettante fonti audio, The End – Rocky Mountains (30′, 2009) di Ragnar Kjartansson apre la mostra con una riflessione che unisce l’immaginario romantico delle cime innevate all’ironica azione dei due musicisti. Ripresi in diversi momenti e con diversi scenari da favola alle spalle, i due sono intenti a suonare cinque diversi momenti del medesimo brano riunito nella fruizione totale della stanza. Lo spazio espositivo è quindi trasformato in cassa acustica e la musica è il filo che conduce alla seconda stanza in cui simultaneamente si proiettano cinque differenti video udibili solo in cuffia. Untitled version (I see a darkness) (4’18”, 2007) di João Onofre accoglie il visitatore sviluppando delicati passaggi di luci e ombre scandite dalla performance del brano I see a darkness di Will Oldham, la cui esecuzione è affidata a giovanissimi eppure ispiratissimi musicisti. La creazione di un contrasto poetico che non riconosce la congiunzione di profondità e maturità è la chiave che mette in contatto lo spettatore con l’immaterialità del progetto espositivo che dal brano di Oldham recupera il titolo.
Segue poi Deer (3’40”, 2002) di Victor Alimpiev strutturato sulle note del compositore Erik Satie per narrare il trasporto amoroso e nostalgico di una coppia, duplicato nel video a due schermi e nella doppia ambientazione della foresta russa e di un’abitazione privata. La natura presentata in The last tour (14’17”, 2004) di Marine Hugonnier è invece presentata quale silente vittima della società dello spettacolo che pone l’uomo al margine del suo antico mondo e lo catapulta in un possibile futuro in cui gli sarà negata persino la visita di un luogo turistico.
Nell’alternanza di filmati registrati sul Matterhorn e a Disneyworld, Hugonnier confronta l’idea di natura a quella di artificio creando un itinerario contorto e melanconico in cui all’uomo sarà possibile compiere l’ultimo tour prima della chiusura definitiva del luogo. L’umanità è protagonista del video Wantee (14’47”, 2013) di Laure Prouvost (premiato con il Turner Prize), in cui la vicenda personale dell’artista è sommata a quella dell’artista Kurt Schwitters. Ambientata in una dimora al limite del disabitato, la storia narra le dinamiche di alienazione e isolamento entro cui far risuonare racconti familiari sull’enigma della sparizione del nonno, in un continuo cut-up tra finzione e realtà, narrazione recuperata e ricucita nella creazione di diversi livelli narrativi.
Al centro della stanza e al cuore del percorso espositivo si ripete in loop Fireworks Text (Pasolini) (14’17” e 15”, 1999) di Cerith Wyn Evans, opera che indaga le possibilità del linguaggio scandagliando le diramazioni delle metodologie comunicative attraverso cui decidiamo di esporre i nostri pensieri più profondi. Veicolando la poesia entro dinamiche pubblicitarie o filmiche, recuperando citazioni che come ‘illuminazioni’ si accendono talvolta come un neon ma in questo caso con il fuoco, Wyn Evans s’inserisce in un chiaro filone originatosi nella filosofia del linguaggio di Wittgenstein passando per le sperimentazioni video di Derek Jarman (di cui fu assistente), per sfociare naturalmente nella figura di Pier Paolo Pasolini. Come un fiume giunge alla foce portando il suo carico, così le parole che Pasolini usava per descrivere un luogo della propria infanzia (affidate al suo Edipo Re) ritornano in Wyn Evans infiammandosi per appassire sulla spiaggia di fronte al mare di Ostia, teatro della sua fine. Il video genera domande con la carrellata che ingloba i numerosi osservatori presenti sulla spiaggia nell’opera.
Nel gioco che dal ‘see’ passa al ‘seen’, si risveglia il dubbio sull’autorialità dell’opera rimandando ad un’idea di arte come fluire della creazione, presente anche in Stanzas (2011) di Meris Angioletti cui è lasciata l’ultima sala della mostra. Esposta alla Biennale di Venezia nel 2011, Stanzas accorda percezioni visive e sonore nella costruzione di un ambiente ragionato completamente sul dialogo tra spettatore e spazio. Condizionato dalle variazioni dei colori e dalle voci captate sul set, l’opera unisce realtà e finzione dando dimostrazione delle rispettive e differenti nature.
A chiudere la visita la presentazione dei lavori materici e immersi nel bianco da white-cube di Magali Reus. Frutto di stratificazioni si materiali e immaginari, le opere di Reus svelano la propria struttura alla vista del fruitore con l’intento di aprirsi, come un carillon, all’evocazione del sentimento delle cose. Così il piano pubblico e quello privato s’intersecano su direttive che accolgono i contorni del vivere quotidiano citato nel marciapiede di In place of quanto nei ripiani dei lucchetti di Leaves.
Isole autosufficienti e sistemi calibrati dai materiali lavorati e laccati secondo l’estetica industriale più accattivante, le opere di Reus sono abitate da oggetti come spie della dimensione intima. Sul marciapiede troviamo una spazzola, ometti portano i segni dell’usura ma nessun abito, mentre i lucchetti recano indicazioni alfanumeriche come codici che possono schiudere ad un ricordo, costruendo assieme la possibilità di molteplici storie.
Alessandra Franetovich