A Villa Olmo di Como si chiude la trilogia di mostre dedicate alla città, dopo la prima intitolata “La città nuova oltre Sant’Elia”, la seconda “Ritratti di città” e l’ultima “Com’è viva la Città. Art &The City” (fino al 29 novembre), immancabile tappa conclusiva di configurazioni urbane dal XX al XXI secolo, volute dall’Assessore alla Cultura Luigi Cavadini. Il titolo frizzante prende spunto da una ironica canzone di Giorgio Gaber del 1969, l’anno dello sbarco sulla luna, quando molti giovani sognavano la città come “Terra promessa”, secondo un’altra nota canzone, questa di Eros Ramazotti, centro delle opportunità e di riscatto per il futuro, mentre oggi avviene il contrario.
Giacinto di Pietrantonio, Direttore della GameC, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, è il brillante curatore di questa mostra trasversale composta da oltre cinquanta opere di diversi media e linguaggi (prevalgono pittura e fotografia e sono presenti soltanto due video), vista dal basso però, all’altezza del cittadino, di chi la abita o la immagina.
In questa “poppissima” rassegna di modi di vivere il quotidiano in città, le architetture non sono più le protagoniste, né prevale il tradizionale vedutismo panoramico di paesaggi urbani già iconizzati nelle precedenti due mostre di carattere storicistico. La città è il luogo della socialità, delle contraddizioni e dalle identità plurime, per questo ora l’interesse si sposta sui cittadini, puntando sulla vivacità dei luoghi urbani, in cui scene d’interni e d’esterni narrano:”Storie di noi brava gente che fa fatica, s’innamora con niente, ma ha in mente grandi idee”, tanto per restare in tema canterino, citando un’altra canzone pop, stavolta di Riccardo Fogli.
La città è fatta di persone, di luoghi di lavoro e di divertimento: parchi, strade, piazze, mercati, negozi, musei, stazioni, in alcuni ci si svaga, in altri si trascorrono le giornate quando non si lavora, come al cinema, al caffè e in altri milieux della mobilità urbana, qui rappresentata come organismo vivente, dinamico e complesso, stratificato come la società che la produce.
Nelle precedenti due mostre, incentrate sulla ricognizione storica della rappresentazione fisica delle metropoli, spiccavano le architetture verticaliste, mito della modernità, con panoramiche in bilico tra arte e cinema, skyline futuristici. Invece “Com’è viva la città”, andrebbe vista ascoltando l’audioguida, costruita da storyville mixando musiche e brani poetici, per immergersi in un flusso in cui la gente diventa folla e i luoghi urbani cantieri di umanità. Così lo spettatore, seguendo una mappatura pisicogeografica soggettiva e scandita dalle opere esposte, passando dalla società dello spettacolo (Debord) a quella della comunicazione (Mc Luhan), ai non luoghi (Augè), fino alla società liquida (Bauman) e a quella dell’industria culturale (Morin), sala dopo sala si configura una città dall’identità prismatica, indefinibile e per ciò affascinante.
Il percorso espositivo non cronologico, bensì tematico è un’opportunità per scoprire artisti del Novecento ancora poco conosciuti, ricomparsi grazie alle ricerche del curatore con l’intento di recuperare opere inedite e dimenticate che giacciono nelle collezioni private e che raccontano le dinamiche dell’evoluzione sociale e della città. Quindi, non aspettatevi la solita cartografia di paesaggismo urbano, piuttosto lasciatevi sorprendere da un intento “voyeur” del curatore, di spiare le persone e i diversi modi di vivere la città: attitudine che sarebbe piaciuta al regista Cesare Zavattini.
La mostra è divisa in dieci sezioni: Trasporti, Tempo Libero, Parchi, Sport, Strada, Distruzioni, Manifestazioni, Mercato, Emblemi e Interni, dove la gente comune o solitarie figure immobilizzate in luoghi in bilico tra realismo e surreale diventano il trait d’union tra interno ed esterno, vita e città, estetica e società. Attenzione, non date tutto per scontato, perché anche nelle scene in cui non c’è nessuno, come nella grande fotografia Zentralinstitut fur Kunstgeschichte, Munchen IV (2000) di Candida Hӧfer, che inquadra la gipsoteca di Belle Arti di Monaco senza il pubblico, e in altri interni metafisici, ci si aspetta che prima o poi qualcuno arriverà.
In città, tutto scorre e brulica di vita anche negli spazi svuotati da presenze umane: nell’ultima
sezione degli “Interni”, prevalgono quelli dell’attesa in cui gli oggetti d’arredo o altri particolari “silenti” inducono a riflettere sulle trasformazioni sociali, di costume e di moda. La mostra potrebbe iniziare da Lezione di canto (1955) di Alberto Ziveri, definito da Roberto Longhi come il maggior pittore realista italiano, poco conosciuto, ma empatico nella sua capacità di ritrarre tre donne mature in una stanza dominata da una grande porta e dal pianoforte, con pochi elementi d’arredo. Le signore non si guardano e non ci guardano, ognuna di loro è una figura isolata, concentrata nella studio del canto, poi se per un secondo si chiudono gli occhi si ha quasi l’impressione di sentire il suono del pianoforte.
Ma torniamo alla prima sala dedicata ai “Trasporti”, in cui spiccano le immagini dell’artista palestinese Emily Jacir, Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2007, che proprio nella città lagunare avrebbe voluto affiancare il nome in arabo a tutte le fermate della linea 1 (da Piazzale Roma al Lido). Il Comune negò il permesso e in mostra restano simulazioni che ci ricordano la contaminazione orientale di Venezia. Nella stessa sala, seduce il dipinto 1938. Dodge Brothers Business Coupé (2011), di Eric White, in rigoroso bianco e nero ispirato alla cinematografia prebellica, che rappresenta l’interno di una macchina mentre trasporta una coppia; lei è sorridente e sembra eccitata dalla vitalità della metropoli, lui è serio e taciturno, concentrato sulla guida.
In questa e in tutte le altre sezioni si mette in mostra una città come “pluriluogo, luogo dei luoghi”, come scrive il curatore, dove l’inaspettato lo creano gli artisti, capaci di frugare o immaginare cosa accade dentro le case e nei diversi luoghi pubblici e privati. L’obiettivo è la vitalità cittadina, tra interno ed esterno, pubblico e privato. E in questo contesto non potevano mancare tre grandi specchi sparsi in diverse sale di Michelangelo Pistoletto, che dagli anni Sessanta trasforma lo spettatore e il luoghi che abita in opera d’arte.
Nella sezione del “Tempo Libero”, catalizzano l’attenzione Al Bar (1981-1984) e Al Cinema (1988) di Salvo, quadri ipnotici per dei tagli di luce che trasfigurano i volti di quegli uomini che affogano la solitudine in un bar o in un cinema. È una sorpresa il dipinto Bar Tintoretto (1981) di Sandro Chia, in cui si vede un autoritratto mascherato dell’artista. È perfettamente equilibrata la terza sala dedicata ai “Parchi”, dove il cittadino moderno esaudisce il desiderio di ristabilire la relazione perduta con la natura, oziando ai bordi della Senna a Parigi, la capitale della modernità nel XIX secolo, come suggerisce La Grande Jatte di Georges Seurat, messo a confronto con l’opera Le Grand Jour à l’Ile de la Grande Jatte di Marcello Jori.
Nella stessa sala c’è il grande scatto fotografico Pic-Nic Allée (2000) di Massimo Vitali con cui si entra nel vivo di una moltitudine di persone stipate tra loro, di cui si ha quasi l’impressione di sentire il brusio delle voci che rompono la quiete della natura circostante. Nella sala degli “Emblemi” c’è un folgorante Vesuvio, degli anni ’80, rosso fuoco di Andy Warhol, e non poteva mancare un salotto dagli arredi di design modernissimo di Roy Lichtenstein. Tra gli altri artisti conquistano per la loro rarefatta sospensione spazio-temporale Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, Felice Casorati. Ma cercate anche l’imperdibile Figure (1951) di Pompeo Borra: è una rivelazione. Questi e altri maestri del Novecento si fanno compagnia nella sala degli “Interni” che chiude il percorso espositivo con l’emblematica Partenza (1926) di Vinicio Paladini.
Meritano una riflessione sul tema arte e società, le sale “Sport”, “Strada”, “Distruzioni” e Manifestazioni”, dove c’è il Comizio (1949-1950) di Giulio Turcato e La Rivoluzione siamo noi (1991) di Marco Cingolani, un lavoro a metà tra pittura e installazione realizzato con cartelli usati nelle manifestazioni, che ruba il titolo a un’opera di Joseph Beuys. Il resto scopritelo da soli, la mostra ha una ritmo incalzante, e cercate anche l’installazione Unità della diversità (Regioni) di 20 portavaso policromi, ironiche teste antropomorfe ispirate alle regioni italiane, progettate da Ugo La Pietra, fatte realizzare dagli artigiani ceramisti di Caltagirone (Sicilia), nota per l’antica tradizione nella lavorazione della ceramica nella Sala d’Onore di Villa Olmo, dove, se guardate in alto, noterete bassorilievi in marmo anch’essi dedicati alle regioni italiane: una ricercatezza di allestimento ragionato di corrispondenze elettive, valorizzate da Giacinto di Pietrantonio che nelle sue mostre è solito annullare la barriera tra arte antica, moderna e contemporanea, mettendo a confronto opere di epoche diverse, e là dove è possibile interagire con il luogo espositivo, come accade nell’austera villa neoclassica, tempio dell’Illuminismo, progettata dall’architetto Simone Cantoni.
Percorrendo la mostra, lasciatevi sorprendere da corto circuiti visivi e concettuali, inaspettati “sottosopra” e punti di vista plurimi, slittamenti spazio-temporali, che amplificano un dialogo metaforico tra passato e presente. Le mostre sono un’ esperienza di conoscenza e per il curatore recuperare le opere inedite di artisti ingiustamente dimenticati è una missione culturale.
Sappiamo che le trame della storia dell’arte sono infinite e non è tutto ordinato come risulta nei manuali. Ma, se l’eccezione non conferma la regola, a Villa Olmo di città come unità del molteplice e della diversità, irregolari e sfuggenti ne troverete tante.
Jacqueline Ceresoli