Quella cosa chiamata arte | che trasforma le cose

di - 13 Ottobre 2014
Negli ultimi venticinque anni Tobias Rehberger ha sempre sempre disegnato e dipinto acquerelli, lo fa continuamente, parallelamente agli altri lavori. Non si tratta soltanto di schizzi o prove, ma anche di vere e proprie serie  di disegni, collage e stampe che rivelano un lato ancora poco conosciuto dell’opera dell’artista. Nella mostra “Wrap it up”, esposta nelle sale del museo MACRO, a cura di Friedhelm Hütte e realizzata in partenariato con Deutsche Bank (fino all’11 gennaio), è presentata solo una parte delle sue opere su carta, quella risalente al periodo tra il  1991 ed il 2003. Rehberger, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 2009, è senza alcun dubbio uno dei più interessanti artisti tedeschi sulla scena internazionale.
Ispirato dalla storia dell’arte moderna e dal design classico del dopoguerra, costruisce nelle sue opere ambienti avveniristici che giocano con luce, spazio, arredamento, segnaletica e abbigliamento. Attraverso le sue molteplici forme di produzione artistica – dalle sculture, agli oggetti industriali, ai pezzi d’artigianato – l’artista esplora una sfera più ampia del design strutturale e dell’architettura, facendo della trasformazione il tema centrale della sua arte.

Nelle opere su carta Reheberger concentra le proprie energie sui processi di percezione e consapevolezza, temporalità e transitorietà, discontinuità e ambiguità. Come nel caso della serie di acquerelli S.M.V., realizzata nel 1992, con la quale mostra la discrepanza tra la raffigurazione psicologica di un luogo e quello che è il suo impatto visivo, si tratta di acquerelli che ritraggono i dolci paesaggi di Verdun e di alcune località sui fiumi Somme e Marne, teatro di atroci scontri durante la Prima Guerra Mondiale. Rehberger invita attraverso il suo lavoro a prendere coscienza del fatto che posti oggi meravigliosi siano stati in realtà campi di battaglia dove si è consumata e formata parte dell’attuale Europa, si tratta dunque di quelli che lui stesso definisce «luoghi pesanti per le nostre coscienze». Ugual processo è stato seguito per la serie Senza titolo (1992) realizzata nello stesso periodo. In questo caso però il tratto si fa più essenziale e l’artista interviene indicando con dei cerchietti rossi i luoghi dove le persone sono morte, come mirini  che non lasciano scampo, i cerchietti rossi afferrano inevitabilmente gli spettatori e le loro coscienze.

Rehberger sceglie di utilizzare l’acquerello agli inizi degli anni Novanta, quando tale tecnica era considerata negativamente dalla critica e «solo i pittori amatoriali dei centri professionali si occupavano di paesaggio». Ma  Rehberger non era interessato alla tecnica in sé, quanto a esplorare l’origine delle cose: è questo il punto di unione tra le sue opere su carta e la scultura. L’artista applica alla sua intera ricerca il principio del tranello per il quale lavori tecnicamente semplici come le stampe o come le opere realizzate al computer posso rivelarsi rigorose opere d’arte concettuale. Ad esempio, con l’ausilio di programmi per l’elaborazione grafica delle immagini Rehberger ha realizzato un’intera serie di lavori: prima di iniziare l’artista decide quanti passi compirà e giunto al termine del processo l’opera sarà terminata. Gli step divengono in questo modo una cornice di contenimento concettuale entro la quale l’artista colloca le proprie opere, lasciando alla casualità del programma  di elaborazione la definizione del momento in cui l’opera può considerarsi compiuta, e liberandosi contestualmente dalla solita domanda che l’artista si pone quanto sta per completare un acquerello o un disegno. Riflettendo sul confine che avvolge un lavoro e che segna il punto di inizio e fine nel rapporto tra opera e artista durante l’atto creativo, Rehberger si interroga analogamente su cosa avviene prima della realizzazione di un’opera, in cosa si può indentificare l’origine di un lavoro artistico. Da questa riflessione nasce la serie Ispiration (2005) dedicata al tema dell’ispirazione. «L’ispirazione si dice in inglese ‘è una piccola città in Cina’, ovvero l’ispirazione non esiste – chiarisce l’artista – non sappiamo quando e da dove arriverà e come finirà, mentre si aspetta l’ispirazione non si sta effettivamente lavorando, però questo stato di cose influisce sul lavoro che si andrà a fare». Si potrebbe perciò interpretare questa serie come un lavoro prima del lavoro, un lavoro prima dell’opera, che l’artista rappresenta con semplici disegni dal fondo bianco latte, dove i tratti galleggiano come pensieri alla ricerca di una forma.

Figlia di una vera e propria azione è invece la serie Großer Akt in Winterrlandschaft (2003), realizzata per l’inserto artistico della rivista ArtMag edita da Deutsche Bank: «Quando mi è arrivata questa proposta ho deciso di realizzare una serie all’apparenza composta da semplici stampe in bianco e nero». Per realizzare le 279 stampe, però, l’artista ha bruciato tutti i suoi indumenti e con le ceneri dei suoi abiti è stato creato il pigmento color nero. A muoverlo è  il principio che in arte tutto si trasforma in qualcosa altro, indumenti, sudore, batteri, pezzi tangibili del suo vissuto si tramutano in questo modo in forme astratte.
È forse proprio quest’ambito quello in cui i lavori dell’artista tedesco assumono maggiore forza e tensione, come nel caso del lungo lavoro, al quale Rehebeger si dedica da più di quindici anni, incentrato sulla realizzazione di falsi poster pubblicitari dedicati ad oggetti che l’artista ama, come il Listerin, un ristorante di Berlino che frequenta abitualmente, la Fiat Panda, la Maserati quattro porte. Produce e affigge i poster sui muri della città senza prima consultare le case produttrici né l’autorità cittadina. Quella che l’artista definisce una semplice pubblicità gratuita e che potrebbe inizialmente sembrare  un’azione volta alla sovversione di regole legate all’affissione dei manifesti o al decoro pubblico, nasconde sotto una apparente ironia una riflessione molto attenta sul potenziale che gli oggetti custodiscono in se, rappresentazione di un piacere personale e condiviso.
La mostra è illuminata dall’opera Infections, composta da 33 esemplari unici di paralumi fatti di nastri di velcro, parte di un progetto ancora in corso, iniziato nel 2002. Se da un lato le opere disegnano se stesse creando un’ombra sul muro, dall’altro testimoniano un momento di scambio e crescita nel corso della produzione artistica dell’intera serie. L’artista ha chiesto ai suoi assistenti di realizzare vari prototipi, ogni paralume è stato poi  modificato da Reheberger quando questi non rispecchiavano suoi standard.  Le sculture, dunque, sono una proiezione della visione congiunta del suo lavoro, dove l’idea che egli stesso ha di questo si scontra e si amalgama con l’immagine che viene percepita dai suoi assistenti.

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