Quell’insostenibile leggerezza del ritratto

di - 26 Gennaio 2014

Dagli Stati Uniti al Belpaese, terra da cui il suo cognome prende origine e dove è arrivata per proporre una “mission (quasi) impossible”: coniugare ritratto e puro informalismo sulla stessa tela. Jackie Saccoccio (Providence, 1963) meets Genova, città in cui arriva col beneplacito di Ilaria Bonacossa – curatrice della personale Portrait Gallery (fino al 9 marzo a Villa Croce) e dove presenta tutta la ricchezza del suo linguaggio fatto di cromatismi accattivanti e facilmente introiettabili. Immediati, ma il pubblico è pregato comunque di “maneggiarli con cura”, anche se a prima vista veicolano soluzioni pittoriche che nel contesto storico-artistico degli anni Duemila non spiccano per originalità, e un po’ accusano le fisiologiche conseguenze di decenni passati a riempirci gli occhi degli astrattismi più disparati. Alle liquide colature di colore, agli scarti cromatici netti o ai cangiantismi studiati non si può chiedere di lasciare di stucco, quantomeno non è cosa da pretendere alla prima occhiata.

Pollice verso per Saccoccio, quindi? Anche no. I colpi di fulmine in arte non pagano sempre, e forse i lavori dell’artista esigono un tempo di esposizione leggermente più lungo per apprezzarne qualcosa che va oltre il sentimentalismo “di pancia” e che si chiama “qualità pittorica”, frutto di una maturità che ha imparato a dosare bene ispirazione e tecnica. Buona la seconda (occhiata), anche perché la nostra americana si gioca un jolly non da poco con la pretenziosa scelta d’intitolare ogni sua opera Portrait, operazione intrigante e furba che di riffa o di raffa costringe a trasformare la “A” di astrazione nella “S” di suggestione. La suggestione è qui il potere di un ritratto fuori dagli schemi, strutturato sull’assenza e non sulla presenza, su una mancanza reale di oggettività sopperita da variazioni cromatico-materiche che culminano nel delicato fascino di zone – più o meno ampie – entro cui la gradazione tonale si fa auratica ed effusiva, una persistente cifra creativa prossima ad alcune operazioni del nostro Vasco Bendini.

Altra cifra/must caratterizzante sono le intricate griglie di colore colato e intrecciato in senso perpendicolare, leitmotiv che ci spinge a considerare con più cura un metodo pittorico sistematicamente diviso tra azione di contatto diretto (riconosciuto e riconoscibile) col supporto e creazione indiretta legata alla materia e alle sue proprietà fisiche. La seconda delle due è dominante, ogni processo pittorico-creativo ad essa collegato – ad esempio il ruotare la tela lasciando che colore e forza di gravità facciano il resto – è anche fondamentale nel lavoro di stratificazione materica tanto caro all’artista, nonché rappresenta una base su cui può contare lo spettatore mentre col suo sguardo concentrato affonda dentro gli equilibri incerti di quei reticolati puro-cromatici, nelle campiture lucentemente indeterminate o nelle macchie lanciate in forma di pioggia misurata sulla tela.
Solo in ultima analisi emerge la sporadicità concessa all’uso di pennellate definite e distinguibili come impronta a rilascio diretto di Saccoccio, quasi nel tentativo di far compiere un passo indietro al proprio ego pittorico, e un passo avanti verso una sicura trascendenza ai propri lavori.
Da par suo l’allestimento è un buon corroborante per questi ritratti in versione esoterica, in particolar modo due sale indicate come terza e quinta sull’utile piantina distribuita all’ingresso. La numero tre propone un intervento site specific dal titolo significativo di Portrait (Absence). Assenza, ossia annullamento coatto di tele, colore ad olio e pigmenti, sostituiti dall’inchiostro nero, unico medium con cui Saccoccio ha lavorato direttamente sulle pareti, ricamando un avvolgente tappezzeria di linee organiche che hanno assimilato le naturali venature del legno come le rotondità indeterminate di piccoli sassi. Da un segno tanto disinvolto, che gestendo vari spessori si spinge fin sulle finestre con un moto così apparentemente spontaneo e privo di logica determinazione, l’artista ricava la propria tessitura fluida mai banale, globalmente convincente nel suo giocare d’antitesi assieme alle impronte – ritagliate con puntualità regolare e simmetrica – dei diciassette dipinti di una quadreria virtuale, e col rigore affilato che la delimita nella parte alta delle pareti.
All’annichilimento puro-bicromo corrisponde una spettacolare sala quinta, dove diciassette tele hanno riempito specularmente gli altrettanti “buchi” dell’ambientazione precedente. Il virtuale ha ritrovato forma compiuta, fatta e reale, una realtà in cui sono riassunti gran parte dei topoi creativi dell’artista e dove esplode la sua passione per abbinamenti e contrasti cromatici infinitamente modulabili, fino a gemme ipnotiche come la superficie cupa e specchiante di Portrait (Deep Purple) o l’invitante oro sparkling, materico come un panneggio, di Portrait (Grit).
Da italiani incassiamo l’omaggio dell’unico titolo nella nostra lingua, Portrait (Sogni d’oro), che oltre ad essere l’opera conclusiva è pure la più dolcemente poetica di tutte, pacificata dall’uso pacato di toni caldi e terrosi. Sarà mica il messaggio subliminale per un Italia “bella addormentata”? Chissà. Nel dubbio speriamo che dopo aver ben sognato, si svegli.

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