Relazioni pericolose: Tracey e Egon

di - 19 Settembre 2015
“Grazie a te e alla tua ombra”. Scriveva Arthur Roessler in una lettera indirizzata ad Egon Schiele nel giugno del 1911, e lo stesso avrebbe potuto dire adesso Tracey Emin. L’artista britannica ha vissuto nel mito di Schiele. Fin da ragazza, ha amato il pittore pallido e maledetto, trovandolo nella musica di David Bowie, che a sua volta lo evocò nelle copertine degli album Heroes e Lodger.
Il dialogo Tracey Emin | Egon Schiele, ospitato fino a pochi giorni fa al Leopold Museum di Vienna, è un’invenzione formidabile.
Una serie di opere di Schiele, accuratamente scelte da Tracey come preghiere per espiare i peccati del corpo, o come specchi della stessa visione del mondo, sono inserite nel percorso espositivo con una naturalezza estrema. L’esposizione è stata possibile grazie a partner come White Cube, Lehmann Maupin, Eimear O’Raw e Tracey Emin Studio, e si apre con un’installazione di proporzioni mastodontiche: It’s not the way I Want to die, una mera ricostruzione delle montagne russe. Un’opera frutto della lettura di un sogno che si traduce in un attaccamento fragile alla vita, un andirivieni di storie passate vissute troppo velocemente, stanziate su rotaie instabili, tralicci e binari tortuosi.
È un’anticamera cupa, veloce e sognante, che sorprendentemente si riflette nella piccola tela di Egon: una montagna grumosa, dal colore del sangue e terra bruciata, un incubo dalla forma conica, un delta di venere rovesciato, Mountain by the River 1910.
Fa specie notare le incredibili affinità tra il paesaggio di Egon e le gigantesche Tracey Railways.
Tracey sembra aver riscattato la vanagloria di Egon, i suoi numeri sono da capogiro, vendite incluse, e la sua espressività non ha rivali. Ebbene, la prima sala è solo un momentaneo digiuno dal corpo per entrambi.

In una serie di supporti di stoffa, posizionati uno dopo l’altro come in foto sequenza, Tracey dimostra quale sia il vero fulcro del suo lavoro: scene che raccontano un sesso autobiografico, ricami su tela, non contrappunti ironici, bensì cotonature che cuciono ferite, s’inerpicano nel calore recente dell’artista, figure femminili che sovrastano quelle maschili. È sutura. È il grande successo che ha riscattato l’incomprensione e la prigionia di suo “fratello” Egon.
In un gioco in cui è necessario notare le differenze, s’intravede sotto il ricamo il tratto a matita, i cumuli di cotone sono più spessi sui seni e sul basso ventre: com’era violento Egon, lo è ora Tracey, immancabilmente, nella prosecuzione delle immagini.
L’opera di Schiele presenta una ragazza che mostra la sua vulva: la giovane alza la gonna acquerellata, esibisce il sesso con disinvoltura, gli occhi sono brillanti e la pelle è glabra, l’adolescenza è ormai introvabile, il vizio scorre tra le gambe ed è visibile più di quanto sia chiaro un giorno di sole.
Successivamente una serie di disegni su carta di Emin, sono fisici blu distesi e con i volti oscurati:
A beautiful mirror; How I Sat; More of You; Crying; I Wanted you so much, sono opere che riflettono stati d’animo, l’ossessione per l’altro, la paura dell’abbandono, l’anima avvinta dal corpo.
Anche i titoli hanno dentro il corpo: “ragazzo con la testa poggiata sulla mano”.

È il nudo maschile di Schiele sorretto dal vuoto. È uno dei pochi volti pacifici. Una figura sbilenca e magra che affonda la faccia sul braccio destro, un ciuffo di capelli blu spunta dall’orecchio: è il primo intervallo in cui il sesso è serenità, il torso disteso produce uno strano arco da cui scendono gambe dal colore verdastro. “Tracy Emin is closer to life, but also to desperation” (Tracey Emin è più vicina alla vita, ma anche alla disperazione), scrive Thomas D.Trummer, ex direttore della Kunsthalle Mainz e coautore del testo in catalogo alla mostra. E la prova concreta è Those who suffer love, la proiezione di un DVD della durata di 20 secondi contenente la serie monoprints del 2009, in coabitazione con Grotto: la riproduzione di una piccola grotta, una sorta di cappella votiva spoglia, in bronzo e patina bianca, popolata dai resti di un corpo acefalo e senza braccia.
Ma l’opera che codifica la sua desolazione è More Solitude. Siamo al buio. Lo sconforto si accentua con l’assenza di luce. Un’installazione audio in sala confida paura e angoscia, alla quale fa eco l’omonima scritta al neon.
Vuoto e tormento sono il suo canto. Schiele scrive poesie e tutto ha il sapore e il riserbo di una fiammata e di un dolce declino. I versi incorniciati sono di White Swan; Country Road; A Self-Portrait, tutti scritti in frangenti lontano dalla città; in essi prevalgono temi come una natura spettrale, amore e morte. Addirittura, nei versi di una bellezza asociale, vi sono ampi spazi vuoti tra una riga e l’altra, e lettere alte come staccionate.

Tra gli artisti della Young British Artists, Tracey è quella che si avvicina di più agli elementi stilistici della secessione viennese, la sua analisi ha i medesimi connotati delle espressioni virulente di Schiele: figure disarmoniche e smembrate, spaventosa introspezione, soggetti che volteggiano nello spazio, contorni scurissimi. Le sue sculture in bronzo ricoperte di patina bianca, poste come blocchi precipitati su un tavolaccio in legno, esprimono inquietudini: sono blocchi che recano sul fianco scritte, che si fondono con statue zoomorfiche: in superficie piccoli corpi fronteggiano bestie bianche, cavalcano cigni, animali che sembrano plastilina. Qui il legame con la deformità espressa dai Chapman Brothers e Damien Hirst è evidente. A queste, seguono le opere che declinano l’amore lesbico, uno dei punti più alti della mostra.
In Lesbian Couple e Two Girls rispettivamente del 1914 e 1915, subentra la devozione di Schiele per il corpo, allettato da una sessualità conturbante ed irascibile, da donne ritratte tramite uno spiccato voyeurismo, che hanno maturato con lui una malizia ineguagliabile su volti sottili e felini, un’attrazione inestricabile tra pallore e passione al di fuori dell’amore. 
Di strepitosa modernità, sono i nudi con cui si conclude il percorso espositivo.
Ognuno di questi è accompagnato da stoffe colorate, i soggetti innaturali sono acquerellati o in gouache, in castigo con il torso supino, accovacciato, gli arti penzolanti.
Una ragazza ha le gambe affusolate, una stoffa verde non risparmia la sua nudità, la posa è spudorata e fotografica, la pelle sembra latte.
La Vienna tardo-imperiale ha lo stesso splendore e odore di marcio dei sobborghi di Londra.
La mostra rivela un’estrema libertà dei corpi, vorticosi e distorti; infondo, come sosteneva
Jean Paul Sartre, “l’artista moderno è condannato alla libertà”.

Rino Terracciano

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