Nel Seicento Amsterdam era la New York dell’epoca. E forse, come la Grande Mela di oggi, contendeva ad altre città il primato di capitale del mondo: nei commerci, nella ricchezza e nel potere simbolico dato dallo stesso essere una metropoli e dal disporre di un forte sistema culturale, prevalentemente iconografico, che celebrava la sua floridezza. Era il “Secolo d’oro”, ma qualcosa doveva ancora avvenire perché Amsterdam chiudesse il cerchio della propria supremazia, qualcosa che ha a che fare proprio con la pittura, l’espressione culturale più alta di quel primato.
Il soggetto dell’iconografa dell’epoca sono i borghesi, distanziandosi nettamente dalla nostra pittura (l’altra grande tradizione iconografica europea) che si concentra su temi religiosi. Gli artisti olandesi, invece, assecondano i loro committenti, laici e che badano al sodo. Ecco quindi una sfilza di capimastri, sindaci, medici, i capi delle potenti Gilde. Il problema è che sono tutti uguali, come congelati in una fissità che li rende poco attraenti. Tutti guardano l’obiettivo, cioè il pittore che li ritrae quasi fosse veramente una foto di gruppo, ma prevedibilmente celebrativa. Nessuno si muove, nessuno è più alto o più basso del suo vicino, o sorride o fa una smorfia o fa per andarsene. E alla fine questo grande ritratto collettivo (si parla di tele anche di 4,5 metri di larghezza per 2,3 di altezza) risulta di una noia mortale.
Ad un certo punto però arriva Rembrandt e tutto cambia. Lui, nelle sue opere, cerca la luce e trova anche il movimento. Insegue il vero, la realtà, e trova quelle forze o quei semplici gesti che quella realtà la rendono vera sul serio. Tutto vibra, dalle posture ai dettagli, le espressioni severe e i baluginii di pietre preziose che adornano le chiome delle sue donne. E vibrano anche i suoi disegni, opere superbe e anche molto variate, a volte realizzare con quel tratto spezzettato e ossessivamente ripetuto e altre volte meno sottile, apparentemente fluido, ma in realtà quasi nervoso. Sorprendentemente moderno.
Molti di questi disegni e diversi olii sono esposti al Rijksmuseum di Amsterdam nella bella mostra “Late Rembrandt” (a cura di Gregor J.M Weber e Jonathan Bikker, fino al 17 maggio), che, dopo la tappa londinese alla National Gallery, approda, arricchita di quattro opere, nella città dove l’artista visse a lungo, stimato pittore, gran collezionista e mercante d’arte e dove vi morì quasi povero. Ma la mostra racconta solo in filigrana la potente virata che Rembrandt impresse alla pittura del suo tempo, in quanto si concentra sugli ultimi 15 anni di vita dell’artista. Quelli in cui la ricerca della luce è acquisita, ma non per questo esaurita, anni in cui Rembrandt non smette di sperimentare, concedendosi alcuni azzardi che si rivelano innovativi strumenti linguistici: è tra i primi a manipolare un quadro con una palette e addirittura con un coltellino, come attestano Lucretia, magnifico olio la cui solenne perfezione nasconde interventi fantasiosi e ripetuti, e La sposa ebrea, che è tutto un florilegio di luce tremolante, tessuti plissettati a suon di spatola, gioielli baluginanti. Un’immagine carica di significati, quella della sposa, protetta dal tenerissimo gesto del marito che sfiora amorevolmente il ventre della donna. Tenero a tal punto da far esclamare, secoli dopo, a van Gogh di non avere mai visto «un dipinto così intimo, infinitamente simpatetico».
Dietro questa eccellenza espressiva c’è tutto il corpo a corpo che Rembrandt intraprende con la pittura, con la cassetta degli attrezzi del pittore nel quale si rivela abilissimo e coraggioso duellante. Fino a che, come racconta bene l’ultimo della lunga serie degli autoritratti (Autoritratto con due cerchi d’oro) – mai forse s’è visto artista più narciso di lui, ma soprattutto deciso a immortalarsi a ogni passaggio della sua arte, quasi a dire: “questo sono io e ora faccio questo, guardatemi tutti” – si ritrae con aria stanca, ma non rassegnata, semplicemente consapevole di essere alla fine e di aver dato tutto quello che poteva dare. E tenta l’ultima sfida alla pittura medesima. Quasi una musa, un destino, una sirena con cui mettere in gioco tutto, la vita stessa.
Come aveva fatto Tiziano, come farà secoli dopo Turner, Rembrandt sfalda la sua pennellata che quasi si deforma verso sponde che oggi definiremmo informali. Non c’è più quel rigore che avevo fatto brillare di luce anche le scene più buie: i frequenti presepi, i volti severi e gli occhi liquidi dei suoi committenti, il candore abbagliante delle cuffie delle mogli di questi. Al suo posto c’è un tratto che si espone allo sguardo quasi con indecenza, tanto è sfatto, come molle, disinteressato a concludersi, volutamente allusivo oltre ogni limite.
Ma a differenza di Tiziano e poi di Turner, quel tratto sfatto evoca qualcosa di non felice, forse di non risolto. Gli ultimi anni di vita dell’artista sono particolarmente drammatici: era morta Saskia, l’amata e giovane moglie, poco dopo lui deve abbandonare la casa, oggi Rembrandthuis (casa museo), e tutto quello che vi era dentro lo spazioso atelier dove lavorava e dove insegnava pittura agli allievi, la bizzarra Wunderkammer dove stipava le sue mirabilia comprate, scambiate con altri collezionisti: ossa di animali, animali imbalsamati, copricapo fantasiosi, oggetti delle più svariate provenienze, e ovviamente, quadri che l’artista comprava e rivendeva. Questa fetta così significativa della sua vita va all’asta a causa del fallimento del pittore-collezionista. E anche la sua fama ha una battuta d’arresto: il lavoro per un’importante committenza affidatagli per il Palazzo Reale che si trova a piazza Dam, da poco restaurato, viene bocciato, preferendogli altri artisti sicuramente meno geniali di lui.
Gli ultimi 15 anni del “tardo Rembrabdt”, la cui arte è stata molto apprezzata dalla critica posteriore, non sono insomma anni sereni. Lo raccontano anche i ritratti che continua a fare dei suoi committenti borghesi, che sono come accigliati, severi, niente affatto compiaciuti e soddisfatti di sé, come appaiono invece nel celebre ritratto della copia di mercanti di Frans Hals. E forse quel tratto che si sfalda, il “non finito” che a noi appare così moderno, che leggiamo come espressione della libertà dell’artista a sfidare le regole della bella pittura, a maltrattarla, se necessario, come farà molti secoli dopo Pollock e dopo di lui tanti altri artisti, fino quasi a negarla, non è un gesto concettuale ante litteram. Ma qualcosa dove affiora il dramma di un uomo, di un grandissimo artista che, un anno prima di morire, ancora sembra dire nel suo ultimo autoritratto: “questo sono io, ho fatto anche questo. Guardatemi tutti, se ne avete il coraggio”.
Visualizza commenti
Il “non finito” è la caratteristica del genio. Come il “non luogo”, il “non nome”, il “non tempo”, ecc… L’astuto Ulisse crea un “non nome”, Nessuno, per ingannare Polifemo, e un “non luogo”, il cavallo di legno, per ingannare i troiani. Queste entità frutto di processi ricorsivi, speculari, inclusivi sono state usate anche da Gesù e Leonardo da Vinci. Michelangelo nella scultura diede origine al termine. L’Adorazione di Leonardo è un non finito e non un opera incompleta, perché l’autore si ritrasse sul bordo destro (per chi guarda), mentre si dirigeva a Milano. Si rappresentò mentre usciva dal quadro, lasciandolo incompiuto . Cfr. Ebook/book di Ravecca Massimo: Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie.