Sardegna d’avanguardia

di - 22 Maggio 2018
La Sardegna riserva sempre bellezze sorprendenti, a volte da scoprire e conquistare con il coltello fra i denti. Per esempio, per arrivare a Nuoro e visitare il suo MAN (Museo d’Arte della Provincia di Nuoro) – ma anche il Museo Etnografico, al Deleddiano, il Tribu Museo Ciusa (quest’ultimo oggi di nuovo chiuso), e spostandosi di poco, il Nivola di Orani –, perlomeno da Cagliari, è un’impresa. Si rischia di perdere due ore solo per informarsi (inutilmente) su un degno collegamento con mezzi pubblici, e allora, per non ricorrere al costoso taxi o noleggiare un’auto, Blablacar diventa l’unica soluzione. Un “ambasciatore” per l’andata, un altro per il ritorno, quattro ore abbondanti di chiacchiere in macchina, diciotto euro, e via, ma alla fine della giornata ci si butta sul letto esausti ma soddisfatti.
L’ultima fatica di Lorenzo Giusti prima di passare dalla direzione del Man a quella della Gamec di Bergamo è un gioiello d’esposizione: “L’elica e la luce. Le futuriste 1912-1944” a cura di Chiara Gatti e Raffaella Resch, fino al 10 giugno. Il titolo, lo diciamo subito, gioca fra le portanti coordinate estetiche del grande movimento italiano e i nomi delle due figlie di uno dei suoi protagonisti, Giacomo Balla, presenti anch’esse con loro opere in mostra.
L’elica e la luce. Le futuriste 1912-1944, vista della mostra
Lo studio della vita e della produzione artistica dell’Otto e soprattutto del Novecento declinata al femminile è un punto acquisito da tempo, anche se in questi ultimi anni ha decisamente elevato l’asticella dell’interesse soprattutto in sede espositiva. Anticipatore, ed essenziale in tal senso, il contributo di Lea Vergine, curatrice della nel 1980 di una memorabile mostra per Palazzo Reale di Milano, “L’altra metà dell’avanguardia”, dedicata alle artiste attive tra il 1910 e il 1940. Interesse che non poteva non coinvolgere i contributi di artiste legate al Futurismo, che hanno operato spesso all’ombra dei ben più invasivi rappresentanti del cosiddetto sesso forte. Prova ne sia questa mostra nuorese, che si dispone sui tre piani del museo (occhio a programmare una refezione meridiana perché le porte si chiudono fra le 13 e le 15 come negli altri musei di Nuoro, e come, purtroppo in tanti altri bellissimi musei di piccoli e medi centri italiani), ma già dallo splendido filmato all’entrata, nel suo mostrare sequenze di donne al lavoro che durante la Grande Guerra sostituiscono gli uomini nelle fabbriche, rivela tutta la forza sociale della presenza femminile nella storia italiana ed europea di quei drammatici anni. E allo stesso modo si coglie che la presenza femminile nel movimento futurista, quest’ultimo ancorché segnato, fin nel celebre diktat contenuto nel Manifesto del 1909, da esternazioni di natura misogina (“Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”) non è certo di contorno, anzi si rivela in tutta la sua autonomia e originalità, e soprattutto è scoperta di straordinarie personalità individuali. A partire dalla vulcanica Valentine de Saint-Point. Sua la prima firma apposta nel marzo del 1912 al Manifeste de la Femme futuriste. Ma il parterre è ricco e soprattutto variegato: Benedetta, la compagna di Marinetti che oltre alle doti pittoriche mostra una forte vena letteraria e drammaturgica, Adriana Bisi Fabbri, i cui Sette peccati capitali gravitano fra simbolismo ed espressionismo, le intense emozioni cromatiche e sentimentali di Marisa Mori e della sua Ebbrezza fisica della maternità. C’è un particolare interesse nel rivivere l’evoluzione di Bice Lazzari dagli esordi figurativi alla deriva astrattista. Lungo il percorso espositivo, così come nell’impaginato del catalogo, è ben ravvisabile quanto i temi accomunino l’esperienza delle artiste con modelli e mentori maschili (naturalmente non solo del primo ma anche del secondo Futurismo): il corpo e la danza, il volo e la velocità, il paesaggio e l’astrazione, le forme e le parole. Particolare rilevanza assumono manifestazioni della creatività squisitamente femminili, come appunto la danza o il lavoro sui tessuti, rivelate con grazia e delicatezza, ma sostenute da grande lucidità e corroborate da una profonda urgenza espressiva. E pure da una certa dose d’ironia, come nella definizione certo più immaginata che reale, di piatti della “Culinaria futurista”: aeroporto piccante, rombi d’ascesa (riso all’arancio), fusoliera di vitello…
Barbara: Pensieri in carlinga, 1938 Olio su tela, 80 x 120 cm. Collezione privata
Il corpo “senziente” è autentico protagonista della produzione di queste artiste (“Il mio corpo doveva esprimere quello che l’aereo faceva” scrive Giannina Censi, autrice di “aerodanze”). Senza dubbio il peso forgiante, quasi da nume tutelare, della presenza maschile non può essere sottaciuto – basti per tutti la serie dei boccioniani Stati d’animo carica d’introspezione psicologica, ma è altrettanto vero che, sublimi immedesimazioni a parte (“Ho inchiodato la mia bella nel suo letto di seta azzurro cupo dove langue di desiderio di essere fecondata dalla mia virilità”: non sono parole di Marinetti ma di Brunas) si percepisce subito un autentico talento nello scorrere le opere presenti in sala. Val poi la pena soffermarsi sul confronto fra progetti o bozzetti a matita o pastello su carta di oli e opere di maggiori dimensioni: Ritmi di rocce e mare di Benedetta, ad esempio. O delle inconfondibili lamiere in alluminio di Regina preparate con carta ritagliata e spillata. E da lì alla vertigine espressiva di Ruzena Zátkova e della sua Acqua scorrente sotto ghiaccio e neve. Come sempre, le mostre ricche di spunti e di aspettative soddisfatte sia a livello intellettuale che emotivo, insomma, le mostre belle, non si riesce mai a raccontarle per intero. Si vivono e basta. L’auspicio non sia vana speranza: sarebbe bello rivedere questa mostra altrove, magari “in continente”. Sarebbe importante, non solo per l’interesse artistico, per la qualità delle opere esposte, ma anche per quello storico, sociale, didattico, umano, in una parola, politico, nel senso più alto del termine.
Giovanni Nonnis – La Matrice e il Segno, foto © Giorgio Marturana
Tornando a Cagliari, altra bella esposizione. Ai Musei Civici, “Giovanni Nonnis – la matrice e il segno”, monografica a cura della Direttrice Paola Mura su un artista sardo che merita particolare attenzione. Strana, questa terra sarda. Conserva scrigni che spesso tiene nascosti, ma al tempo stesso attrae come calamita figure d’arte cultura e civiltà che ne scoprono il fascino irresistibile dei luoghi e l’intensità della terra, la saggezza della gente (il tutto da delibare con lentezza). Nonnis (1929-75), “barbacino antiarcadico”, ha portato avanti un lavoro appartato ma coerentissimo con una linea poietica che fa dell’uso dei materiali, anche assai differenti fra loro, aporia e viatico ad un tempo per il perseguimento di un obiettivo espressivo, sostenuto da una forza di pensiero costruita su una ferrea logica interna alla propria lingua, e trasformata ma in grande intensità emotiva. Archetipo pre-istorico – commentato in un filmato da Giorgio Pellegrini, conoscitore dell’opera di questo artista morto troppo giovane – è una proiezione di Grione, barbaro selvatico anticlassico guerriero con quattro occhi e quattro braccia, ucciso da Ercole che si dice di origine sarda. Prestato dal museo archeologico, ne viene presentata in mostra un’immaginaria riproduzione in bronzo: preziosissimo oggetto d’arte, databile fra il decimo e l’ottavo secolo A.C., che fa da ideale prototipo iconografico del lavoro di Nonnis. Ecco dunque da qui nascere attraverso matrici (da cui il titolo della mostra) di polistirolo, per la prima volta esposte al pubblico, segni riprodotti su supporti come la masonite, rigorosamente geometrici e di sostanziale aniconicità. Inoltre, l’opera di Giovanni Nonnis dialoga al piano inferiore con magnifici esempi, provenienti dalla collezione del museo, di altri esponenti dell’arte sarda più recente, e recentemente scomparsi, come il formidabile Cristo ligneo del compianto Pinuccio Sciola derivato quasi per morphing scultoreo da un tronco, o gli ormai celebri e celebrati orditi di un’opera di Maria Lai. Riparleremo, di questi e altri momenti espositivi. Come di un altro museo sardo, quello di Calasetta, che ha aperto di recente i battenti.
Luigi Abbate

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