Inizia al MAXXI il “Grand Tour” di Ettore Spalletti , mentre scrivo non sono ancora inaugurate le tappe di Torino ( Gam) e Napoli (Madre). È una mostra esemplare di quello che l’arte sa fare e dire per coinvolgere a tutto tondo spazio, bellezza, pensiero. Dopo tante lamentele sugli spazi del MAXXI, autoritari, competitivi, punitivi, Spalletti compie la svolta e crea una “naturale” armonia tra l’andamento “irregolare” dei muri e la rapsodia che mette in opera.
Il suo mondo diventa nostro, possiamo percorrerlo e viverlo circondati e protetti dal colore. Questo è quello che preme a Ettore e che spesso gli fa descrivere il colore piegando una mano nel gesto di accogliere, raccogliere una cosa preziosa o fragile o evanescente. É quello che mi ha fatto capire, che “il colore non si può descrivere, si può solo pronunciare”, come ho scritto nel libro che abbiamo fatto a quattro mani: “Tra me e te” (1990, edizioni Locus Solus).
All’inaugurazione del MAXXI il sentimento di protezione e di accoglienza era così chiaro e sensibile che tutte le persone sembravano diluite tra le colonne, i quadri , la primaria architettura di Un giorno così bianco, così bianco e quella complessa e tortuosa di Zaha Hadid. Le persone erano diluite perché si mescolavano alle opere, ma non interferivano. Certo, interrompevano la contemplazione del vuoto, del silenzio, del colore, ma, come succede in una piazza delle città italiane, non diminuiscono la bellezza della prospettiva. L’ho detto a Ettore: “sono contento, ero preoccupato dall’interruzione, ma si vede che il mio lavoro è più forte di me”.
Io ho avuto la percezione che tutti assecondassimo la direzione rabdomantica, non lineare di Colonne sole”( 2014) – due a un capo della sala e una verso l’altro, ma un po’ al centro – come succede quando si cammina in un luogo protetto e ci si lascia trasportare dagli occhi e dai ricordi. Come in Piazza San Marco a Venezia dove, nonostante i turisti, i piccioni e magari l’acqua alta, è istintivo intuire le direzione verso la laguna, segnata dalle colonne di San Todaro e di San Marco.
Appunto una mostra esemplare. Da un lato ci ambienta con la memoria del paesaggio artistico italiano; dall’altro indica la necessità contemporanea dell’arte di riprendere il discorso sul proprio linguaggio, di investigare il presente non tanto con l’estenuante commento concettuale della realtà, ma con la proposta di un modo estetico per dare respiro alle emozioni che toccano la pelle.
Tra i colori di Spalletti il rosa è centrale: avverte della profondità, della fragilità, della forza della pelle. In Parole di Colore (2011) assume la figura del diaframma che separa e contiene il corpo umano e l’atmosfera. Sono quattro grandi tavole dai bordi netti, in cui il rosa dialoga con un blu profondo e luminoso insieme, si intuisce l’indaco che a volte traspare in un chiaro di luna o nello sguardo di chi ci ascolta e allo stesso tempo pensa per proprio conto. E poi con un azzurro chiaro, netto, come la luce invernale a mezzogiorno e infine con quello brillante, tattile che potremmo definire, “Azzurro Spalletti”.
Duchamp diceva che “il titolo è un colore verbale”, e allora queste Parole di colore mi confermano nella necessità di pronunciarle più che descriverle. Blu, rosa, azzurro, azzurro: appare il mistero di una lingua da guardare per ascoltare cosa dice e partecipare al dialogo. Non serve traduzione. Gli occhi parlano tutte le lingue, i colori avvertono che per toccare la pelle del corpo e dell’aria e individuarne la bellezza c’è bisogno di una guida visiva, di figure che la rappresentino. Da soli non riusciamo. Da soli non riusciamo a fare molte cose: amare, pensare, disobbedire a parole ripetute troppe volte tanto che hanno perso colore.
In questo leggo la radicalità attuale di Spalletti, la sua coerenza nell’indagare attraverso il colore la forma e il linguaggio dell’arte. Qui sta anche la critica alla bassa tensione culturale di oggi. I pensieri non si fermano: ci chiedono di decidere il colore che vogliamo dargli.
Davanti a Bassa voce (2014), l’enorme “dipinto”, disteso a terra che invade il pavimento di uno slargo imprevedibile nella pianta della sala, siamo totalmente rapiti dalla domanda di una vastità che attira con il silenzio, la pausa. La risposta emozionante, pronunciata in azzurro, ci avverte di quanta sensibilità ci sia da scoprire quando abbassiamo la voce. Una straordinaria e pungente metafora dell’eccesso di parole che proviene dallo schermo.
Trascinata dai punti che disegnano il confine della visione, arrivo davanti alla stanza cubica di Un giorno così bianco, così bianco (2013). Il titolo avverte di una temperatura che tutti possiamo provare, ma senza Spalletti è difficile da vedere. Si entra nel giorno bianco, nitidissimo, ma non accecante. Undici tavole bianche, dai bordi rastremati e dipinti in foglia d’oro, sono appese in modo inclinato rispetto alle pareti e muovono la luce, lo spazio, avvolgendoci in un movimento a tutto tondo, che è quello della luce, della vita, del concetto di pittura che attraversa da sempre il lavoro di Spalletti. La scultura si fa col colore e con la luce, esattamente come la pittura. Lui fornisce una chiave per vedere e pensare la natura tridimensionale della superficie, sia essa quella della pittura o della parola o dell’emozione fisica. Ed è tanto forte questo concetto che in quel Giorno così bianco, così bianco, molte coppie si sono fatte fotografare con telefonini o dai fotografi professionali che erano presenti. E’ diventato subito un luogo simbolico della memoria personale.
Uscendo, ancora una Parola di colore: “Blu”. Un po’ più in là, Carta (2014). Da una cornice azzurra chiarissima, come a volte gli occhi di un vecchio o un cielo dietro le nuvole di Gian Domenico Tiepolo, si stacca leggermente la superficie dipinta, non combacia, si solleva agli angoli, proprio come una carta o una nuvola sollevata dall’aria. Chiude il percorso una foto in bianco e nero di Ettore, E porgere, chissà da quale tempo, quanto rimane vivo (Giorgio Colombo,1976). È chinato, con la mano sparge sul pavimento il gesso che agglutina i suoi pigmenti. Ritorna il gesto che accoglie e protegge “la polpa tinta del colore”, come diceva De Chirico. Mi giro e mi accorgo che forse non è la fine del percorso, ma l’inizio. Così la rapsodia di Spalletti ha interagito con lo spazio proteiforme di Zaha Hadid e ci ha offerto una visione circolare, in cui fine e inizio si alleano. Di nuovo il tutto tondo della sua pittura che diventa scultura, spazio fisico, architettura.