“Arte torna Arte” è la rassegna che intorno a quel simbolo di libertà che fu il David si mostra alla Galleria dell’Accademia di Firenze, ponendo in dialogo contemporaneo e antico in una città che vive ancora oggi all’ombra dell’arte del Rinascimento e dove, appunto, anche i “geni” non hanno vita facile.
La Galleria, oltre il David, il San Matteo, i quattro Prigioni e la Pietà di Palestrina di incerta attribuzione a Michelangelo, accoglie nelle proprie sale le opere di maestri operanti in ambito fiorentino dalla seconda metà del Duecento alla fine del Cinquecento ed è il luogo dove “Arte torna Arte” accade, divenendo per questo evento un territorio “contaminato” dalla nozione di continuum del presente, spazio-temporale, in quanto l’arte come composizione di senso non presenta interruzione della continuità.
Ipotizzando il continuum come una linea retta, su questa potremmo idealmente muoverci avanti e indietro e ogni volta attivare uno sguardo che interpreta e interroga tanto il passato quanto il presente, ma sempre collocati ben saldi nel proprio tempo. Per questo mi piace pensare che il grande potere di un’opera d’arte sia attraversare la convenzione del tempo senza subire il fascino della storia.
Affinità formali e pittoriche, richiami simbolici e variazioni su temi come il doppio e la riproducibilità costituiscono il tessuto delle scelte estetiche dei tre curatori: Bruno Corà, Franca Falletti e Daria Filardo.
I lavori di Louise Bourgeois, Giuseppe Penone, Yves Klein, Giulio Paolini, Antony Gormley, Eliseo Mattiacci, Claudio Parmiggiani, Bill Viola, Renato Ranaldi, Olaf Nicolai, Leoncillo, sono mostrati in con-vivenza diretta con le opere che attengono alla storia dell’arte e per questo sale l’intensità della visione. Sempre rimanendo sul medesimo principio della convivenza diretta, ma nella formula del site-specific si sono proposti Alfredo Pirri che ha reinterpreto lo spazio con un lavoro di forte impatto estetico, ponendo sul pavimento della Sala della pittura del Trecento fiorentino lastre di vetro che i visitatori nel fruire le opere, man mano fratturano. Jannis Kounellis, proponendo un tema a lui caro come la deposizione, ha riadattato nella Galleria dei Prigioni un’opera del 1999 realizzata per l’altare della chiesa di San Carlo a Spoleto ed anche Martin Creed ha rivisto e corretto un’idea performativa del 2008, mettendo in scena alcuni corridori che in orari prestabiliti percorrono in lungo e in largo e alla massima velocità possibile lo spazio della Galleria, come era già avvenuto alla Tate Britain di Londra. Hans-Peter Feldmann ha posto nel cortile la scultura di un David rivisitato, ridotto a feticcio kitsch. Infine, la scultura di Antonio Catelani che, esplicitamente chiamato a interpretare lo spazio architettonico, ha realizzato una scultura in situ in alluminio tubolare curvato, risultato della misurazione di una delle colonne della Tribuna del David. Peccato però che, a mostra aperta, il lavoro risulti semi-nascosto da strutture che lo preservano dalla presenza del pubblico.
Proseguendo nella mappatura dell’esposizione, i lavori di Fiona Tan, Francis Bacon, Marcel Duchamp, Michelangelo Pistoletto, Luciano Fabro, Ketty La Rocca, Alberto Burri, Rineke Dijkstra, Luigi Ghirri, Alberto Savinio, Thomas Struht, Luigi Ontani, Picasso, Sol LeWitt, Andy Warhol, Gino De Dominicis e Yves Klein sono posti nelle sale attigue alla Galleria dei Prigioni: spazi a latere rispetto alla collezione, quindi allestiti ad hoc per l’occasione, dove l’intento primario della mostra, forse anche per l’ingente numero degli artisti proposti, è in parte offuscato.
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