Se l’artista va in Sardegna. Residenza o turismo culturale? |

di - 23 Dicembre 2013

Nel mese di Ottobre il comune di Villasor, nella provincia del Medio-Campidano, ha accolto la terza edizione di Le Ville Matte, proponendo una riflessione su cosa significa abitare un territorio come il Campidano, pianura nei pressi di Cagliari caratterizzata dall’edilizia in terra cruda. La curatrice Manuela Serra, insieme al professore Andreas Altenhoff, all’artista Marie Claude Beck e Mariano Corda, mediatore con la comunità, ha accompagnato gli artisti verso interventi dal carattere permanente, segnando il passo rispetto alle edizioni precedenti, più legate al valore della performatività.
Le ricerche proposte sono riconducibili a tre temi: la rievocazione e l’estetizzazione dell’abbandono attraverso il mezzo fotografico (Andrea Kalinova e Vincente Ceraudo, la prima concentrandosi sui materiali di scarto trovati per il paese, il secondo sulle architetture disabitate presenti sul territorio campestre); le rassicuranti pratiche relazionali – con l’intervento sul tema del cibo di Justin Tylor Tate e quello perfomativo in collaborazione con i cantori locali di Katharina Mayer – e la creazione di grandi installazioni sullo spazio pubblico, con opere che hanno giocato sul cambio di scala, come la sedia incastonata nel Castello Siviller di Sahar Al Khateeb, sul potere evocativo dei materiali, il portale in filtri da the di Sabrina Oppo, e sul riuso di vecchi macchinari per la creazione di nuovi strumenti, come la fanta-macchina per la produzione di mattoni di Fabrizio Monsellato.

La curatrice racconta come il lavoro dei partecipanti abbia giovato di uno scambio di saperi con gli artigiani locali e di una condivisione dei laboratori e sia stato persino realizzato un sistema economico interno grazie al quale gli artisti hanno potuto acquistare i materiali attraverso una “moneta” locale temporanea.
La collaborazione con i laboratori artigianali del paese ospite ha caratterizzato anche la residenza di Ludovica Gioscia alla Galleria Mangiabarche, a cura di Stefano Rabolli Pansera, direttore della Fondazione MACC. La struttura è attiva con un proprio programma di residenze da ormai un anno, grazie al quale hanno transitato sulla piccola isola di San Pietro quasi venti artisti, la maggior parte provenienti dal Regno Unito. Ciò che contraddistingue quest’esperienza da altre residenze è la peculiarità del luogo di lavoro, Mangiabarche, architettura militare riconvertita a white cube ma lasciata priva di copertura. Quello che dovrebbe costituire un limite è diventato identità: chi interviene realizza opere costrette alla relazione con le opere lasciate dagli artisti nelle precedenti residenze ma, soprattutto, che devono fare i conti con la cattiva conservazione dovuta all’esposizione alle condizioni atmosferiche.

Per quest’occasione Ludovica Gioscia ha presentato Mineral Rush Flamingo Crush, un gigantesco décollage lungo le pareti della Galleria in cui la fragilità della materia e il contrasto fra quanto viene asportato e quanto si conserva rielabora in chiave estetica la storia del territorio, riproponendo con cromie e texture chiassose i simboli legati la produzione mineraria del Sulcis, dalla cartografia dei processi estrattivi alle iconografie delle architetture proprie dell’archeologia industriale, mischiandole con le icone del pop globale. Oltre al wall-paper, abbiamo una serie di formelle in ceramica, realizzate in collaborazione con un artigiano di Calasetta, a colmare le irregolarità della pavimentazione dello spazio espositivo con nuovi inserti dal mondo esterno.

Entrambi i progetti hanno prestato molta attenzione sia al processo di scambio, sia a ciò che gli artisti ospiti lasciano, ricercando una materialità dell’opera che potesse testimoniare l’impianto di nuovi innesti nei rispettivi territori. Se artisti e curatori ci raccontano quanto sia interessante lavorare in contesti che conservano tradizioni tecniche spesso dimenticate nei grandi centri abitati, per capire realmente l’effettivo frutto di queste semine diventa cruciale monitorare quanto accade dopo la partenza degli addetti ai lavori, verificare i segni lasciati sulla comunità, l’inizio o l’accelerarsi di eventuali processi di sensibilizzazione al linguaggio dell’arte contemporanea e di riconoscimento identitario nelle opere che rimangono nei luoghi di accoglienza. Insomma, per fugare dubbi e critiche, spente le luci dell’evento, si dovrebbe prestare attenzione al processo generativo e andare a intervistare chi ha aperto la propria casa alla ricerca artistica. Se vogliamo continuare a credere nella validità dello strumento, per onestà intellettuale, dobbiamo prevedere un post-residenza, soffermarci su un territorio e riflettere su quanto fatto, prima di scappare al progetto successivo.

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