Tra gli intriganti palazzi storici napoletani, c’è anche, a via Crispi 69, Palazzo Ruffo di Calabria. Che ha un suo fascino particolare. Costruito da Beniamino Ruffo di Calabria nel tardo Ottocento, conserva il bianco dello stile neoclassico, ha il verde di un giardino tutt’attorno e l’azzurro del mare in lontananza. Acquistato da Benedetto Croce, è stato abitato dalla sua famiglia e quindi anche da suo genero, lo scrittore polacco, napoletano di adozione, Gustaw Herling. Perciò, forse, qui vi è un’atmosfera intellettuale, in cui s’immaginano vagare elevati pensieri che danno alle pietre un’affascinante forza magnetica. E forse per questo, Thomas Dane, brillante gallerista londinese, vi ha aperto, al primo piano, una galleria d’arte contemporanea che è anche residenza e laboratorio di idee. «È stata una decisione improvvisa. Thomas si trovava qui, a Napoli, una città che gli piace. Quel suo essere fuori regola lo attrae. Chiacchierando, si diceva: sarebbe bello avere una galleria qui e poi lui: perché no?», ci ha raccontato Federica Sheehan, la gentile direttrice della galleria. Ed ecco fatto. A gennaio 2018 l’apertura, con una prima mostra. Ora ce n’è, fino al 28 luglio, una seconda, quella di Glenn Ligon, E la mia guida mi parla dell’alta considerazione in cui è tenuto questo artista non ancora sessantenne, tanto da essere celebrato, già alcuni anni fa, con una retrospettiva.
Glenn Ligon: Tutto poteva, nella poesia, avere una soluzione, vista della mostra courtesy Thomas Dane Gallery
Adesso una sua opera occupa un’intera parete della galleria. È il disegno, ottenuto con un tubo nero, di due grandi mani, che mostrano i palmi con le dita bene aperte. Come a dire: stop, fermatevi. Penso, istintivamente, a un’invocazione: fermatevi, non distruggete la natura, non andate sempre avanti…per cadere nel precipizio…come i ciechi di Pieter Bruegel…non fate del male. «Soprattutto l’artista si riferisce ai poliziotti americani che sparano contro i neri», chiarisce Sheehan che, in un’altra sala, mi indica una scritta. Risalta, sulla parete bianca, con dei caratteri enormi come per un manifesto: SIETE OSPITI. Ora è con noi anche Glenn Ligon, che ci ha raggiunto. È un signore robusto ma non grasso, con i modi gentili, la carnagione nerissima e i denti bianchissimi mostrati spesso, nei frequenti sorrisi. Mi spiega la scritta, raccontando che anni fa ha notato, allo stadio, durante una partita di calcio tra Bologna e Napoli, in cui gli spettatori napoletani erano più numerosi dei bolognesi che li ospitavano, un manifesto mostrato da un napoletano, che diceva “SIETE VOI GLI OSPITI”. L’appartenenza di un popolo a un territorio, ovvero di un territorio a un popolo – dice la scritta di Glenn – non ha una ragione storica ma è semplicemente un fatto numerico. Cioè, se in un territorio gli stranieri diventano più numerosi degli abitanti, essi ne diventano i proprietari e gli altri diventano ospiti. Come in democrazia, vince la maggioranza. Passiamo in un’altra sala, dove sono due opere, in cui ancora viene presentata una questione simile. Sono intitolate Stranger e allora capisco che Ligon viene onorato per il contenuto del suo lavoro, per il suo impegno sociale, per le sue convinzioni largamente condivise e istituzionalmente sostenute. Le due opere, più alte che larghe, hanno la forma, di molto ingrandita, delle pagine di un libro (ingrandire al fine di reclamizzare). E riportano scritti tratti dal saggio Stranger in the village, di James Baldwin, che racconta il disagio di chi, abitando in un Paese straniero, è considerato diverso e tale finisce con il sentirsi.
Glenn Ligon: Tutto poteva, nella poesia, avere una soluzione, vista della mostra courtesy Thomas Dane Gallery
Si impone alla vista il quadro più grande, che sembra fatto di una morbida materia lanosa e, meno scuro dell’altro, mostra più chiaramente le linee orizzontali della scrittura: una composizione ordinata, molto razionale, che suggerisce le linee dell’abaco, sul quale gli antichi latini facevano di conto, cioè esercitavano la loro ratio, dalla quale deriverà la parola e il concetto della dritta ragione. Leggo a fatica una parte del primo rigo ma poi non riesco a leggere altro, perché le parole, scorrendo via via, verso il basso, diventano sempre meno leggibili. In un’altra sala, vi sono tre opere. Due sono scurissime, sono serigrafie. Contengono delle lettere. Possono ricordare le lettere nell’opera di Paul Klee Beginning of a Poem ma soltanto vagamente nella composizione. Perché qui le lettere sono coperte con l’inchiostro. Mentre strisciate di colore nero, tracciate con il pennarello dall’alto verso il basso, ribadiscono il desiderio di cancellarle. «Sono simboli? Perché cancellarli?» – «Magari per crearne di nuovi» mi risponde Ligon. Ma il terzo quadro è diverso, grandissimo e tutto bianco. Vi galleggiano liberamente, come in una spuma spruzzata nell’aria, vaghi elementi. È come un mandare all’aria ciò che è pesante, la scrittura, i suoi simboli e il suo ordine razionale. Qui non c’è posto per discorsi impegnati, per recriminazioni, rivendicazioni, attivismo sociale. Qui dell’arte c’è solo la libertà e la leggerezza.
Entra da una veranda il sole estivo. Napoli, a volte, sa essere disarmante.
Adriana Dragoni