Site specific? No, place specific

di - 25 Febbraio 2014
Ciò che si rivela nell’apparenza delle nostre consuetudini quotidiane è forse la traccia più rilevante della nostra esistenza. Eppure registriamo a intermittenza, ci dimentichiamo delle piccole cose e delle grandi visioni, delle immagini reali e mentali, scivoliamo dentro il paesaggio che ci circonda. Così mentre la luce esercita la sua forza stringendo o dilatando le nostre pupille, spesso isoliamo l’azione meccanica da quella sentimentale in un esercizio di difesa, di separatezza, di sopravvivenza. Il lavoro di Ceal Floyer agisce dentro questo sistema per ricondurre la nostra attenzione sui frammenti minimali delle circostanze, con arguzia e sensibilità. Il risultato è così sottile e leggero da imprimersi nel nostro animo per effetto dello stupore che esercita nella massima semplicità operativa.

Ottima allora l’occasione italiana offerta da Museion a Bolzano che apre il suo programma 2014 con una personale dedicata a quest’artista britannica, berlinese d’adozione, classe 1968, attiva dalla metà degli anni novanta e di cui si ricorda la partecipazione alla Biennale di Venezia nel 2009, alla Biennale di Singapore nel 2011 e a dOCUMENTA 13 nel 2012, così come il Preis der Nationalgalerie für junge Kunst nel 2007 e premio il Nam June Paik Art Center Prize nel 2009. Ottimo anche il risultato: per la prima volta il quarto pieno di Museion, vasto spazio folgorato dalla luce delle vetrate inclinate sulle montagne circostanti, sembra restituire la sua vocazione all’arte senza perdere la sua attrattiva mozzafiato.
Il merito è l’immaterialità concettuale di Ceal Floyer, il suo gioco fatto d’istanti, di luce, di proiezioni semplificate e lontanissime dagli abusi tecnologici. Tutti elementi che nel percorso espositivo contrappongono all’imponenza dello spazio l’impercettibilità e la leggerezza di una mostra giocata sulla chiarezza e sull’ovvietà di ciò che si vede. Una pratica, quella della Floyer, da sempre lontana dai riflettori, dagli esercizi muscolari che hanno segnato alcune fra le precedenti mostre negli stessi spazi di Museion, «un tiro alla fune narrativo tra le opere d’arte e lo spazio», come scrive Sergio Edelsztein nel suo saggio in catalogo.

Ciò che da sempre caratterizza e identifica i lavori di Ceal Floyer è la consapevolezza dell’assurdo mescolata all’ironia: piccoli passaggi che capovolgono le aspettative del visitatore e fanno vacillare la percezione di ciò che sembra familiare. Oggetti che, sottintendendo l’operazione duchampiana del ready made, grazie al titolo, acquisiscono significato e perfino una vita propria.
Sono tredici le opere esposte a Museion tra video, installazioni e fotografie provenienti da collezioni pubbliche e private, tra cui anche un’opera nata per l’occasione, Blick del 2014. Minuscoli angoli autoadesivi, come quelli dei comuni album di fotografie, sono applicati agli angoli delle enormi vetrate di Museion. Con questo elementare e paradossale gesto, Floyer spiazza ironicamente le nostre abitudini visive e, mentre chinati a pavimento andiamo cercando gli angolini autodesivi, nella nostra memoria scorrono le cartoline e le fotografie di vita familiare alle cui spalle scorrono le vette dolomitiche.

L’azione dell’artista e il gioco di parole legato a Blick (sguardo, nel senso di veduta, ma anche marca di materiali per la conservazione e la realizzazione di opere d’arte) compongono infatti nel luogo un efficace cortocircuito che ci fa pensare e ricordare, regalandoci un sorriso. In parallelo, nel centro del pavimento del vasto piano espositivo, troviamo un comune cerchio di frecce adesive rosse che, secondo le convenzioni, segnano un Meeting Point (2013). Questo segnale, efficace come punto d’incontro in edifici pubblici come stazioni e aeroporti appare paradossale all’interno di una galleria d’arte contemporanea, a tutt’altro rischio rispetto all’affollamento, come nella consapevolezza dell’artista.
Su un altro registro formale, tra le opere, ad esempio il dittico Half Full e Half Empty (1999.): nelle due fotografie – tratte da due negativi d’identico soggetto – lo stesso bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto è rappresentato in due opere distinte, esposte insieme, ma separate, che costringono quindi il visitatore ad un ironico esercizio di déjà vu mentale e linguistico mentre a falcate solitarie torna sulle due immagini alla ricerca di qualche differenza.

Floyer pare davvero giocare a nascondino insieme ai visitatori sollecitati ad avere un ruolo attivo nell’attribuire un significato alle opere e al loro comportamento nello spazio. Interessante in questo senso è l’affermazione dell’artista quando dichiara, in merito alla condizione di produttore di senso: «Non c’è bisogno di realizzare altri lavori, quando è più interessante fare nuove mostre con quelli già esistenti». Inserita nel più vasto dispositivo del sistema artistico attuale affamato di opere inedite e site specific il concetto espresso e quello di place specific della Floyer rappresenta un perfetto e innovativo equilibrio tra sollecitazione e sperimentazione.
Un riconoscimento di qualità e professionalità a Letizia Ragaglia, direttrice artistica di Museion e curatrice di questa bella mostra capace di superare gli standard dei circuiti italiani e europei così come i provincialismi internazionali di un paese in cerca di melanconiche conferme esterofile. E un plauso anche per l’accoglienza di un gruppo di giovani che, dentro gli spazi di Museion, è pronto a condurvi fra le opere senza mai prevaricare il piacere della scoperta. Ma soprattutto un grazie per il sorriso che Ceal Floyer, capace di mostrarci l’apparente dietro l’apparenza, strappa agli occhi della nostra mente.

Laureata e specializzata in storia dell’arte, docente, critica e curatrice. Mi interessa leggere, guardare, scrivere e viaggiare, fare talent scout, ascoltare gli artisti che si raccontano, seguire progetti e mostre, visitare musei e spazi alternativi, intrecciare le discipline e le generazioni, raggiungere missions impossible. Fondo e dirigo Contemporary Locus.

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