Son tornate le viole/2

di - 10 Giugno 2014

A Casa Testori
(Novate Milanese) ci sono scale, porte, finestre, stanze vuote e un giardino
pieno di rose. Lo stacco tra la vita di Giovanni Testori, e la casa senza di
lui, è struggente. Ma la commemorazione, diceva Heidegger (L’abbandono), è un’ “occasione per pensare”. A maggio oltre alle “Rose Testori”
create da un floricoltore tedesco, sono spuntate  le
viole
di Massimo Kaufmann e Maria Morganti. Più che una mostra, è
una supplenza di vita. Nulla è stato modificato, ma Testori non abita più qui.
Al suo posto si accomodano altri. Fa un
effetto da fuori scena, malinconico. Venendo da Milano in macchina si
è inghiottititi  da una campagna, triste,
brutta, senza capo né coda. Poi si arriva e si trova il vuoto. Forse è un buon
esercizio per raccontare la morte in
modo laico e personale. Non so se Giovanni Testori lo avesse previsto. È una commemorazione senza Cristi e Madonne,
dove ci si incontra con spontaneità, ma ci vuole un po’ di tempo. Si può
pensare. È un posto buono. C’è un piccolo ufficio, con le pubblicazioni, gli orari,
le visite di Casa Testori, ma leggero, il vuoto aleggia anche qui. Poi avviene lo scatto
e il colore ci fa andare da una stanza all’altra seguendo le figure di Kaufmann e di Morganti. A volte sono insieme nella stessa stanza, a volte No. In
primo piano c’è la relazione, il dialogo, il tempo passato nella casa, nel
giardino a fumare,  ognuno a casa
propria. Opere bellissime, intelligenti e da studiare.

Massimo Kaufmann invita amici e
parenti a lavorare insieme, dipingono
una stanza intera, dal pavimento al soffitto. Come nella bottega di un
moderno Tiziano, Kaufmann ha diviso gli spazi delle pareti in tante zone
ascensionali, ne ha affidate una, o due,
o tre a  ciascuno (Stefano Arienti, Marco Cingolani, Giovanni
Frangi. Andrea Mastrovito, Fulvia Mendini, Katja Noppes, Michela Pomaro,
Massimo Uberti
)  e a stesso. È un grande imbuto di colori e segni diversi, ci si dimentica delle finestre,
si guarda da lontano e poi da vicino, per individuare le mani. Si può ancora
stare insieme e inventare. Testori ne sarebbe contento, e la sua casa
tristanzuola e poco affascinante  prende
il volo verso l’alto dell’immaginazione. Tinte forti, decise, al ritmo del
jazz: quindi improvvisazione e controllo. Musicalità e materia tinta, al posto
delle luci del night, ma viene comunque voglia di ballare, di ascoltare.
Alternanze impreviste e precisione nelle sottolineature di porte e finestre. I
colori diventano architettura e le strutture della casa fanno da servizio. Come
è normale.

Maria Morganti ha deciso di stanare
Testori attraverso le sue stesse parole, da “Il Gran Teatro Montano. Saggi
su Gaudenzio Ferrari”, 1965. Ha preso delle frasi e le ha inserite accanto
ai titoli dei suoi quadri. Bello. Porta la vita dentro la casa e nello stesso
tempo ci dice  che l’arte passa da un
colore a una parola, da un suono a un segno, senza patire, perchè come diceva
Orazio a Fescennino: ««Se reciti male i miei versi sono tuoi, se li reciti bene
sono miei». Questa è  la chiave per aprire le porte dell’arte.
Chiunque  è libero di appropriarsene. Non
occorrono soldi, basta vedere, intuire, prevedere.  Molto dell’entusiasmo sta nell’intuizione: è
lì che si prende il treno per la novità. La previsione nell’arte non ha
cronologia stabile, va e viene, dentro e fuori dal tempo, secondo la proprietà
transitiva di Orazio. Se si recitano bene i versi altrui, si entra realmente
nell’arte, perchè aggiungendo la nostra voce ce ne appropriamo. Le viole di Casa
Testori sottolineano proprio questo. Kaufmann e Morganti hanno recitato bene “i versi e i colori ” di
Testori e dalla loro voce è apparsa la domanda sulla previsione. Che ne faremo
delle case, delle eredità, dei “Giardini squisiti”, come si intitola
la loro mostra? Non lo so. Sento però un’urgenza simpatica tra persone allenate
a capirsi e allora forse possiamo recitare “Orazio” nel teatro delle
emozioni condivise. Non è tanto difficile, basta ascoltare, vedere, prevedere.

Maria Morganti ci impiega un tempo
enorme a fare un quadro, strato dopo strato eclissa un colore dopo l’altro, ma
in alto sul bordo, raggrumati, restano questi “bigoli” di colore (in
veneziano spaghetti, fatti  a mano, irregolari).
Su quel bordo si sente tra le mani la
materia del colore
. Questa è la frase che Maria ha preso da Testori: l’ha
recitata così bene che è sua, ma anche nostra mentre guardiamo le 20 carte,
dipinte con pastelli. “Ero lì lì, per dirlo io”: questo è quello che
ho provato. Nel dittico, Colori diventano
parole. Parole ritornano colori, 2011
, dilaga il rosa,  passa da un tramonto a un pungente  ciclamino. Si sente uno spazio pensato,
lentamente, che resiste nella retina, poi guardiamo “i bigoli”
multicolori ai bordi, e capiamo che in pittura , come nella vita il colore non
si può descrivere, ma solo pronunciare, come un verso,  una canzone. Insomma, Massimo
Kaufmann e Maria Morganti con le loro viole ricordano che nei giardini bisogna
convivere con altri, che il colore è di tutti, ma la pronuncia di chi lo vede.
La pittura è un ambiente, dove  si può
vedere, intuire, prevedere il presente, senza cancellare il passato. È una metafora importante, perché è l’augurio  che tutti vorrebbero nella vita.

Alla Triennale, (a
cura di Paola Nicolin) la visione è diversa, ma l’intensità è molto simile. Markus Schinwald conosce a fondo il
desiderio di dipingere strato su strato per annullare il tempo dei suoi quadri,
per inserire frammenti che distorcono leggermente, ambiguamente la figura, ma
senza svelare il punto di sutura tra un quadro trovato e uno ritrovato nel
momento in cui lui inserisce una deviazione. Anche lui, come Maria Morganti,
dipinge e ridipinge…. Alla Triennale c’è un altro slittamento. Riguarda il
teatro che spesso contamina le sue installazioni, come abbiamo visto al
Padiglione Austriaco della Biennale di Venezia del 2011. Qui alcune scenografie
del Teatro La Scala del Don Giovanni di Mozart, diventano quinte per delineare
il percorso. È una  specie di
tortuoso zig zag, che  fa da sfondo e allo
stesso tempo indica la direzione per le sue nuove sculture, in resina e fibra
di carbonio, Culbutos. Sono dipinte
passaggio, dopo passaggio per ottenere, quel verde lucido, foglia d’ortensia, o
quel bianco che sembra senza luce come uno specchio, ma anche gessoso opaco, e
poi leggermente livido come il ghiaccio per terra. Questi cambiamenti sono
collegati alle forme plastiche e basculanti delle sculture, che si muovono
appena si toccano. Da un lato evocano il panorama della scultura del ‘900,  dall’altro un’ idea originaria e infinita
della fisicità corporea.

La loro forma proviene dal calco di parti del corpo
umano, non è evidente, ma  si intuisce.
L’ibrido fisico della scultura trova così una parentela con gli immaginari
ibridi di volti, di particolari  dei suoi
dipinti. Il colore diventa una specie di anomalo incarnato per un anomalo
soggetto. Sappiamo che la scultura antica era dipinta e l’allusione a forme
storiche suggestiona questo parallelo. La chiave pero è l’idea del colore e dei
tempi. Questi artisti impiegano tempi lunghi per arrivare a impastare i loro
colori,  noi dunque se li vogliamo
pronunciare in modo che rimangano “loro”, come direbbe Orazio, ma
siano anche nostri, dobbiamo entrare nel tempo “nuovo, anzi antico”
della contemplazione reciproca. Qui sta l’inganno: non si può star fuori, siamo
costretti a entrare nel tempo dell’altro, dell’altra, cioè di tutti i soggetti
che l’arte ha messo al mondo. Non ci sono luoghi sacri, ma stagioni in cui si
sente qualcosa di nuovo nel sole.

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