C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,/ anzi d’antico: io vivo altrove, e sento/ che sono intorno nate le viole. (Giovanni Pascoli, L’aquilone, 1900). Chi non ha usato questi versi per un’intuizione in arrivo? È la novità che proviene dall’esperienza, per questo la “sentiamo”, prima ancora di vederla. Io, per esempio, ho sentito che, intorno al rinsecchito campo della cultura italiana, sono nate le viole. Speriamo attecchiscano. Le ho viste a Milano, alla mostra di Luca Pancrazzi (Assab One), e a quelle di Massimo Kaufmann e di Maria Morganti (Casa Testori). E, nonostante il sistema italiano dell’arte viva altrove, c’è qualcosa di nuovo e di antico allo stesso tempo: la pittura e il desiderio di relazione.
Nei ventanni passati “Tutti volevano fà gli Americani”. Oggi il ritornello è quello di Crozza-Razzi: «amico caro, te lo dico da artista, fatti ‘na mostra tutta tua!» In pochi hanno creduto a questa possibilità, così gli artisti italiani, tra i 40/50 anni, non sono effettivamente entrati nel circuito nazionale. Se l’informazione non parte da qui, come possiamo aspettarci che all’estero sappiano cosa succede? I luoghi dove le viole nascono ad ogni stagione, però, gli artisti li trovano sempre. Succede anche con Markus Schinwald alla Triennale di Milano: di nuovo c’è la pittura e le sue relazioni con altri linguaggi.
Le viole di quella che fino a pochi giorno fa è stata una tardiva primavera cosa dicono?
Pancrazzi. Il tema cruciale per lui, e per noi, è il paesaggio. Tra le sue figure e le sue parole si sente vibrare la fragilità. Tutto sta per crollare, il rischio di sparizione non è futuribile, ma una costante che passa dai drammi dei terremoti, delle frane al progressivo stravolgimento dell’ambiente con il cemento e l’assenza di cura, ad esempio, del sistema dei terrazzamenti, per cui si perdono disegni e skyline naturali che sono un’immagine propria del paesaggio italiano, a partire dal Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti.
Pancrazzi si oppone con acribia e mescola il paesaggio naturale a quello emotivo, personale. La relazione tra sè e l’ambiente di nascita, di vita, di attraversamento diventa la chiave di una nuova orografia visiva. Tra le moltissime opere presenti ad Assab One, due installazioni tengono in bilico e in equilibrio la sua sensibilità personale e quella degli osservatori. La mostra inizia dall’alto, dal primo piano, dove appare il film, Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, 2013, dura otto ore, ed è anche il titolo della mostra (a cura di Pietro Gaglianò). Un’ischeletrita, dolcissima linea, si muove, si distorce come un’onda, dalla quale emergono contorni di edifici, accenni vegetali, pali della luce, vuoti. L’emozione è grande. Perchè è la linea della vita. Qualcuno se la fa leggere sulla mano, qui si dipana tra gli occhi, il cuore, il cervello: tutti riconosciamo il destino. Della perdita? Della morte? Forse. Ma l’aspetto più perturbante e inedito riguarda l’esiguità nel lasciare tracce. L’arte è una pratica per vivere in eterno, per fertilizzare il terreno della memoria, per riscattare i frammenti, le titubanze, le imperfezioni, gli errori e trasmetterli come un impasto. Sì, è una specie di farina da setacciare e impastare per condividere le tracce di chi ci ha preceduto, consegnandoci il mistero di una persistenza che va oltre. Un quadro, fatto mille anni fa o ieri, ci rassicura perché indica una possibilità di coesistere attraverso il tempo, perché avverte che l’assoluto è anche dentro di noi.
Talvolta accade nella natura, talvolta in un lampo degli occhi, talvolta in un incontro. Insomma, nella costante evoluzione delle lingue che impariamo a parlare.
Pancrazzi dà figura alla dispersione, all’invisibilità che pure partecipano alla vita e alle tracce. E così commenta. «Nella fretta di rallentare il passo ho provato a non distrarmi dal paesaggio, ma ho inevitabilmente lasciato scivolare dalle braccia, troppo piene, dei pezzi. Voglio concentrarmi sul paesaggio, per questo rallento. Erano pezzi importanti? Preziosi? Vecchi? Nuovi?. … Erano pezzi miei o presi in prestito? Sono chilometri che guardo anche se non ricordo niente … chilometri di paesaggio sono entrati direttamente nel corpo come se la sete si fosse placata dopo aver bevuto attaccato alla bottiglia un litro d’acqua a garganella… Anche se non ricordo cosa ho visto, il mio umore è diverso. So di aver attraversato dei momenti indimenticabili ed altri più tristi … So di essere stato felice…. I miei pensieri hanno modellato il paesaggio in un flusso opposto a quello dello sguardo. Una rimessa a dimora dello sguardo… una proiezione cosmica e intestinale al tempo stesso».
Non è una visione rinunciataria, ma una proposta urgente per condividere il cambiamento e tentare la scalata al cielo di una gerarchia plasmabile, che, passo dopo passo, si rende responsabile di ciò che cade fuori dalla rete. Siamo in un momento di reale dispersione delle verità, dei diritti, dei doveri, dei piaceri istituzionali e forse è arrivato il momento di affrontare sensibilità meno prometeiche, meno certe. Occorre inventare il modo per sfuggire al deterioramento. Siamo però ancora in una fase di passaggio e le figure di Pancrazzi danno conto di ciò.
La seconda versione di Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, realizzata appositamente per questa mostra, si trova al pianterreno, in una grande stanza che porta le tracce della sua vita passata. Era una tipografia industriale. Oltre a resti di macchinari (la grande macchina da stampa è stata trasferita in India e proprio Pancrazzi anni fa l’aveva messa in moto), una traccia esplicita della funzione di questo edificio è la grande fascia nera di circa un metro e mezzo, che avvolge le pareti. Qui, Pancrazzi ha disegnato a matita un paesaggio “invisibile”, trattiene contorni di case, cose, oggetti, visioni. È la trasposizione in una linea di demarcazione tra il visibile e l’invisibile, delle sue città immaginarie che appaiono da una feritoia, in genere sopra alte basi bianche. Di quale paesaggio parla Pancrazzi? Di quello di tutti, ma soprattutto del suo personale, fatto da innumerevoli tracce concluse in piccole sculture, che pone sotto una campana di plexiglas. Come se volesse preservarle e allo stesso tempo “rimetterle a dimora”. È una metafora forte e coinvolgente della vita e della creazione, ma anche un segnale politico preciso.
Abbiamo perso la capacità di prendere la mira sulle cose, sugli eventi, sui rapporti personali e collettivi. Tutto scorre, la linea di demarcazione è invisibile. Lui prova a ricollegarsi, impasta i lavori passati e dichiara la necessità di partire da sè per creare un paesaggio in cui vivere e perdersi, accettare la finitezza. Ma dice anche che non si può essere passivi.
Prende la mira per tracciare in un rotolo di scontrino la sua linea e poi filmarla, per disegnare i suoi panorami sul limite di una fascia nera, in cui è facile sprofondare e cadere nell’invisibile. Ma prende realmente la mira con fucile per scrivere, colpo dopo colpo, una declinazione allarmante. IO SPARISCO. TU SPARISCI. EGLI SPARISCE. NOI SPARIAMO. VOI SPARATE. ESSI SPARANO. In questa assonanza significativa tra “sparire e sparare”, si conclude la mostra. Si apre il paesaggio della terribile esperienza di chi spara e di chi sparisce anche senza essere colpito. Il rischio è ancora questo. A meno che, non si decida di ricomporre passo dopo passo il paesaggio della vita privata e quello della vita pubblica, mettendo a dimora le tracce. Quelle a cui siamo affezionati, quelle che rifiutiamo (ma che comunque restano) e quelle che stiamo elaborando. È un esercizio di precisione, come sparare. Ma, nel mettere a fuoco, nel prendere la mira, individua il gesto per rendere visibile il profondo, invece di azzerarlo nella invisibilità senza appello della canna di fucile.