SPECIALE VENEZIA |

di - 8 Maggio 2015
È dal 2001, da quando Barry McGee aka Twist, Todd James aka Reas e Stephen Powers aka Espo portarono Street Market in laguna, che non si vedono “graffiti” alla Biennale. E oggi si riparte.
Dove e quando nasce l’idea di un progetto veneziano che coinvolga esclusivamente artisti contemporanei accomunati da un passato nel graffiti writing americano e europeo?
«Il progetto nasce da una richiesta specifica fatta da Carlo Pagliani e Claudia Mahler a un comune amico, Fulvio Zendrini: aiutare dei giovanissimi amanti dell’arte contemporanea a realizzare una mostra negli spazi del Terminal di San Basilio. C’era lo spazio, messo gentilmente a disposizione dall’Autorità Portuale di Venezia, c’era l’idea, trasformare un magazzino in un centro destinato a ospitare mostre, ma mancava la competenza necessaria. I ragazzi avevano formato un’associazione, INOSSIDABILE, e avevano voglia di lavorare con artisti che gravitassero attorno al mondo della Street Art: grazie a questi amici in comune è arrivato l’invito a curare la mostra».
Come si è sviluppato il progetto?
«Inizialmente, la loro idea puntava a coinvolgere degli artisti per dipingere i muri del Terminal. Ho pensato invece che, visto il periodo e l’opportunità di far parte della Biennale di Venezia, valesse la pena fare un qualcosa di diverso e più ambizioso: tentare una ricognizione nel mondo del writing per riportare alla luce il percorso di una serie di artisti che trovo formidabili. Oggi si fa un gran parlare di Street Art e tanti purtroppo fanno confusione tra le discipline: Muralismo, Stencilism, e chi più ne ha più ne metta. Il Writing ha origini precise e la letteratura, come tu stesso hai notato con il tuo libro-progetto Crossboarding, è ottima e abbondante. Alla proliferazione di artisti che si cimentano su muri, treni o tela non ha fatto seguito una crescita istituzionale e le gallerie e i musei continuano a proporre mostre sempre uguali, senza un minimo comun denominatore che ci faccia scoprire qualcosa di nuovo».

Ti sei rifatto a qualche “antecedente storico”?
«Per rintracciare il seme di questa mostra, bisogna tornare indietro di più di trent’anni “Arte di Frontiera, New York Graffiti”, organizzata a Bologna nel 1984. Da lì sono partito per percorrere un cammino che fa scoprire un mondo nuovo popolato di artisti che hanno fatto della sperimentazione il tratto comune. La scelta è stata facile, molti sono cari amici, che seguo da decenni e che non hanno mai smesso di evolversi nel loro lavoro, scegliendo le forme artistiche ed espressive più disparate. A loro ho chiesto di venire a Venezia per trasformare lo spazio in una sorta di “Cappella Sistina” dove ospitare i loro lavori. Da una parte dovranno affrescare i muri, dall’altra creare dei lavori ad hoc che mostrino dove sono arrivati oggi nella loro ricerca espressiva. I tratti distintivi di ognuno sono chiari, ma la destinazione del loro percorso artistico rimane per me sempre una sorpresa».

Oltre a inquadrare in maniera molto precisa la storia di questa corrente e a valutarne l’apporto ai codici artistici degli ultimi decenni, The Bridges of Graffiti sfugge finalmente al dilemma “arte o vandalismo”. Puoi anticiparci le letture alternative proposte con questa mostra?
«Non sarà una mostra di graffiti, ma presenteremo artisti che hanno una radice comune, perché hanno iniziato un percorso in strada, muri o treni che siano. La scelta che abbiamo fatto è molto precisa: esplicitare questa radice, mostrando la storia del fenomeno attraverso i contributi di due leggende come i fotografi Martha Cooper e Henry Chalfant che, grazie al loro lavoro documentaristico, hanno immortalato decenni di storia. Abbiamo inoltre scelto artisti che hanno preso le mosse da New York per approdare in Europa, come Futura 2000, Doze Green e Todd James aka Reas, associandoli ad altri che hanno dimostrato di sapere raccogliere il testimone dagli americani per evolvere verso forme mai sperimentate prima. Il caso di Boris Tellegen aka Delta e del suo studio del 3D è esemplare. Mode2, ZeroT hanno portato il figurativo nel mondo del writing ad un’altezza tale che per tantissimi anni gli altri europei non hanno potuto far altro che emularli. Jayone, SKKI si sono uniti a Mode2 in questo percorso. Gli ultimi lavori di Eron a questo proposito sono incredibili. Diverso il caso di Teach che abbiamo scelto per chiudere il cerchio e ritornare al mondo da cui tutti provengono, quello dei pezzi sui muri e sui treni. Ancora oggi con la sua crew, i DDS, fanno cose che io stesso fatico a comprendere. Consiglio di vedere il trailer Underbelly per capire di cosa parlo».

Le istituzioni – musei, centri d’arte, università – sono rimaste impermeabili ai “graffiti” negli ultimi quattro decenni, nonostante l’impatto di questa cultura sull’immaginario contemporaneo. Oggi è evidente un’inversione di tendenza, in parte dettata dall’interesse crescente del mercato dell’arte per artisti come quelli selezionati per questa mostra. Quali sono i temi prioritari da porre al centro del dibattito nei prossimi anni?
«La ricerca credo debba incentrarsi sul lavoro degli artisti più interessanti per consentirgli di proseguire il proprio cammino espressivo. Credo sarebbe l’ora di finirla di dedicare mostre e sforzi al passato per cercare di portare il discorso sul futuro. Dalla ricognizione all’esplorazione: The Bridges of Graffiti (http://www.thebridgesofgraffiti.com/) vuol essere un tentativo in questa direzione. L’aiuto che ho ricevuto da Nicola Peressoni, Andrea Caputo, Luca Barcellona, Pietro Rivasi nel cercare di fare luce sul fenomeno è stato ed è sempre enorme. Ed è grazie al costante impegno di Mode2, che mi sta aiutando nella curatela di questa impresa, che stiamo cercando di far emergere il lavoro di artisti, la cui maturità sfugge ancora a molti».

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