Spiegare l’arte alle anguille

di - 9 Dicembre 2014
Le “grandi domande” saranno pure cambiate, ce n’è una però che noi di Exibart troviamo sia un innegabile evergreen, ed è questa: se si vocifera che l’arte contemporanea sta divenendo – o forse è già divenuta – un sistema per sempre meno eletti, di conseguenza l’artista può permettersi di attaccare l’arte contemporanea stessa (perlomeno in alcune sue ritualità) senza essere tacciato di sputare nel piatto dove mangia e perdere in coerenza? Notare bene che per una risposta positiva pare aiuti le physique du rôle, quindi che l’artista si tenga a distanza da un linguaggio autoreferenziale, produca lavori che prevedano pieno coinvolgimento del pubblico, dosi effetti patinatura, arzigogoli mentali, processi critici e bla bla vari. Tradotto papale papale, caro artista che vuoi scendere in piedi dal carrozzone, sii post-Fluxus e qualche sassolino dalla scarpa potrai (forse) togliertelo.

Post-Fluxus è il termine giusto – garantito da Ilaria Bonacossa – per inquadrare l’opera di A Constructed World, collettivo australiano nato nel 1993 e formato da Geoff Lowe e Jacqueline Riva, fino all’otto febbraio a Villa Croce con l’antologica “A Dangerous Critical Present”, curata dalla stessa direttrice artistica del museo assieme ad Anna Lovecchio. Geoff e Jacqueline, due personaggi alla mano e scanzonati un passo oltre l’idea di kitsch, che basano molto sulla semplicità di mezzi/azioni e puntano enormemente sui simboli, usando come cifra stilistica l’abiura verso qualsiasi coerenza di carattere estetizzante, pure quando lavorano su carta. Due teste e quattro mani per un’antologica che fa breccia tra il bonariamente e volutamente raffazzonato, lasciando persino il piano nobile del museo a corto di nobiltà. Anche perché, se veramente il fine giustifica i mezzi, tutto in quello spazio sembra voler sortire un attacco macroscopico alla tripletta artistico-capitalistico-intellettualoide.

La prova del fuoco alle Opere di fuoco, in una prima sala dove la consapevolezza è di procedere con logica che guarda in piccolo per arrivare a colpire in grande. Forse troppi input in relazione ai metriquadri da riempire, tuttavia s’impara presto che questa mania d’infarcire gli spazi è al tempo stesso benchmark di un’azione strutturata sulla distonica abbondanza contaminativo-comunicativa. E fuoco sia, catarsi manipolatoria, distruzione che attenta il lusso capitalista di argenti su tavolo in marmo attraverso la presenza inquietante di un’automobile (scala 1:24) incenerita. Pensare poi che l’auto sia proprio una Volkswagen Golf – modello diffuso a livello mondiale e status symbol per molti – è un dettaglio iconologico non disprezzabile.
Ma a tenere banco più delle immagini o degli oggetti abbrustoliti esposti, complice anche l’effetto penombra, sono i monitor tutti differenti per dimensioni ed ere tecnologiche, che shakerano in un unico cocktail video di performance simboliche (mitico l’aplomb amatoriale della parola Speech data alle fiamme con corredo di balletto e canzoncina) a quelli di simboli oggettuali (tra i quali un dollaro, un mappamondo, il modellino di auto poco sopra menzionato) messi al rogo. La stessa videocamera in fiamme negando l’oggetto conferma l’azione di ACW, mentre la pira penzolante con finta fiammella fatta da luce e tessuto è la cialtronata scaccia autoreferenzialità, giustamente messa all’apice di una torta dichiaratamente casalinga e da condividere tutti assieme.

Il fuoco. E l’acqua, quella finta in cui sguazzano anguille (finte anche loro, di bronzo), in un successivo spazio rivestito da mensole piene di reperti ex-performance. Anguille al centro, come una sorta di biblico vitello d’oro, simulacro nel simulacro di un progetto dal titolo molto eloquente: Spiegare l’arte contemporanea alle anguille vive. Non è dato sapere se nel corso delle lezioni critico-performative – iniziate a Milano nel 2004 – i pesci abbiano imparato qualcosa, anche per questo a Villa Croce il duo si è spinto nel passare la parola alle anguille, in un contro-indottrinamento che le vede munite simbolicamente di microfono. È l’uomo a dover ascoltare, come pure s’intuisce dalla struttura in legno sedia+speaker coerente con certi esperimenti processuali di Vasco Bendini, martellante nel sciorinare in multilingue sempre una stessa frase riguardante (guarda caso) l’interpretazione critica delle opere d’arte.

Post-religiosa e pre-divinatoria la sezione Ateismo e fortuna, un ambiente dove i tappeti bianco-azzurrini allargati in stile moschea fanno a pugni con la parola Athéism campeggiante su ognuno di essi. Ad altezza occhi un lampadario vintage, che prima ancora di sembrare un’incursione di Flavio Favelli (inclusi strato di polvere e quattro lampadine tutte differenti tra loro) mescola credenze ataviche sobillando il caro vecchio “non è vero ma ci credo” nei corni rossi, coralli e ferri di cavallo appesi.

Altrove sottili pareti in compensato supportano progetti passati e futuri, tracciati su carte di qualsiasi genere, compreso uno strappo di sacchetto del pane; mura tappezzate da arazzi-patchwork di carta con la solita passione per l’accumulo, tra fogli e disegni che raccontano trascorsi pittorico-performativi, mescolati bene col presente di una planimetria liberamente disegnata dettagliando punto per punto l’intervento genovese. E c’è ancora posto per un ultimo “cambio d’abito”, lì dove l’ambientazione si fa minimal e l’accumulo si perde in puro concetto al limite del patologico, istintiva moltiplicazione di beni materiali sbrogliata a partire dalla Parabola dei talenti – secondo ACW archetipo del capitalismo – e in un planisfero di coreografiche “facce da culo”. A chiusura del cerchio due anfore ricoperte d’immagini sessualmente esplicite prese da internet, testimonianze di un liberismo sessuale che proprio la censura dei bollini blu – voluta a suo tempo dalla National Gallery of Victoria – ha trasformato in pornografia.

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