Storie che non sono la mia

di - 24 Novembre 2015
Dal 25 novembre al 6 marzo 2016 l’intero primo piano della Triennale di Milano ospita “Ennesima. Una mostra di sette mostre sull’arte italiana”, a cura di Vincenzo de Bellis con la direzione artistica di Edoardo Bonaspetti. Oltre settanta artisti per un totale di più di centoventi opere che, precisa De Bellis, «non vuole essere una revisione di carattere enciclopedico, ma una possibile rilettura con gli occhi della distanza storica delle vicende storico-artistiche italiane dagli anni ‘60 ai nostri giorni, con un particolare focus su Milano e un format inedito». Ma è proprio nella distanza storica del punto di vista che, almeno sul versante critico-curatoriale, “Ennesima” dimostra una confortante apertura al nuovo del sistema arte italiano, spesso ingabbiato in una coazione a ripetere e a ripetersi.
Infatti, se il contenuto storico della mostra renderebbe più giustificabile richiamare la vecchia guardia della critica italiana, questa volta è lo sguardo, certo più distante ma anche meno compromesso, del giovane curatore a fare i conti con un passato che non è il suo: un’importante inversione del trend piuttosto immobilista che affligge l’art system nostrano, dove il nuovo, soprattutto in ambito strettamente artistico, fatica ad affermarsi.
Controtendenza confermata, tra l’altro, dalla scelta di affidare la redazione del catalogo a un gruppo di una ventina di giovani critici e curatori under 45, completando così quello che pare un ufficiale passaggio di testimone fra due generazioni. Oltre a sancire il turnover in atto nella critica, per De Bellis “Ennesima” rappresenta «una necessaria presa di responsabilità generazionale, in uno spazio istituzionale finalmente conquistato, nei confronti di vicende artistiche non vissute direttamente, facendo della distanza temporale la prospettiva nuova per costruire visioni parziali, forse soggettive, ma sicuramente inedite».

Un bel banco di prova, insomma, per una generazione che Andrea Viliani, membro del board curatoriale del catalogo oltre che direttore del Madre di Napoli, riconosce «più individualista delle precedenti e meno incline a un confronto storico-critico costante, ma che qui ha finalmente l’occasione di praticare, esprimendo ciò che la storia dell’arte ancora cela (le sue possibili zone d’ombra e a volte di rabbia, la sua radicale sincerità e il suo appassionato impegno, come le sue speculazioni), oltre che ciò che di questa storia si è già rilevato, depositandosi nelle narrazioni storicizzate e dominanti, queste sì non esaustive, sull’arte italiana».
Il tratto “storico” dell’operazione viene avallato anche da Giacinto Di Pietrantonio, direttore artistico della GaMeC di Bergamo, oltre che esponente di punta del ‘vecchio’ gotha della critica e protagonista di alcune mostre del periodo in questione, che non vede in “Ennesima” una forma di ‘prepensionamento’ forzato dei vecchi da parte delle nuove leve ma, «ma un cambio di prospettiva indispensabile per non ripetere la solita versione dei fatti condizionata dall’averli vissuti in prima persona». Chapeau alla generosità, intanto. E preziosa la sottolineatura del vantaggio dello scarto temporale. Perché, se il coinvolgimento diretto spesso innesca interpretazioni univoche poco propense a rinnovarsi, la distanza è la lente ‘sbeccata’ che consente di cogliere le coesistenze di senso di una storia dall’identità molteplice, tracciandone un quadro plurale e stratificato quale “Ennesima” vuole essere.

La pluralità del progetto e delle prospettive intercettate si riflette anche sul formato inedito della mostra ripartita in sette percorsi ipotetici, tramite cui rileggere l’arte italiana, esplorando alcune delle diverse possibilità espositive: dalla mostra personale all’installazione site-specific, dalla collettiva tematica alla collettiva cronologica, dalla collettiva su uno specifico movimento alla collettiva su un medium, fino alla mostra di documentazione. Insomma, un condensato eterogeneo di periodi, climi, stili, formati del recente passato rimessi in discussione grazie alla sensibilità critica di oggi che, «intrecciando il lavoro sulla bibliografia con il reperimento di testimonianze dirette, ha la libertà di poter fare la domanda sbagliata, superficiale, inutile, ignorante che obbliga a dire le cose più che a commentare i fatti con la difficoltà della scrittura, sempre, di un pezzo della vita degli altri», ammette Paola Nicolin, critica e storica dell’arte, riassumendo il senso e la sfida di un rinnovamento in atto, di cui “Ennesima” è dimostrazione e forse esempio da seguire.
Se in ambito critico-curatoriale un’apertura del sistema è innegabile (basta qualche nome del team curatoriale del catalogo della mostra per rendersene conto, oltre ai già citati Viliani e Nicolin: Alessandro Rabottini, Andrea Lissoni, Barbara Casavecchia, Massimiliano Gioni, Simone Menegoi, tutti ormai parte che conta dell’establishment), non si può dire lo stesso per l’arte emergente italiana, più snobbata dalle sedi istituzionali del contemporaneo e ormai anche dalle gallerie, responsabili, dunque, di un ricambio generazionale interrotto a metà.

Giacinto Di Pietrantonio imputa, però, la scelta delle istituzioni di puntare poco sul nuovo a «una difficoltà espressiva innegabile dei giovani artisti emergenti dovuta a un deficit di personalità e a un eccesso di citazionismo del passato, che li rendono di scarso appeal per un gusto estero più pop che privilegia ricerche di maggiore impatto estetico e sociopolitico». Strutturale carenza qualitativa dei giovani, dunque, o c’è dell’altro? «Da parte di noi operatori del settore, soprattutto in ambito istituzionale, c’è una mancanza di coraggio nel sostenere l’arte emergente che, seppur di livello non eccelso, meriterebbe comunque lo spazio necessario per crescere e migliorarsi», ammette De Bellis.
È proprio qui, forse, che mostre come “Ennesima” possono agire da sbloccante di un sistema arte in stagnazione. Costruendo una piattaforma di confronto in progress tra presente e passato del contemporaneo italiano, tra maestri riconosciuti, artisti mid-career emersi a cavallo degli anni Novanta e i primi Duemila e i giovani delle generazioni più recenti, la mostra alla Triennale pone le basi affinché il dialogo paritario realizzato in ambito critico, tra le visioni di ieri e le versioni alternative di chi non c’era e ora dice la sua, possa innescarsi anche a livello artistico, completando un rinnovamento fermo a metà.
Un’ipotesi incoraggiante che speriamo di vedere presto confermata.
Martina Piumatti

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