STREET AND THE CITY

di - 5 Febbraio 2007

Una volta c’era Little Italy, pittoresco quartiere di Manhattan consacrato a un folgorante destino di celluloide: l’indimenticabile location del Padrino di Coppola ispirò molte pellicole d’autore, da Mean Streets di Scorsese a Bronx di De Niro, passando per China girl di Abel Ferrara. Fu la confinante Chinatown ad assorbire progressivamente la piccola riserva italiana nel cuore di Nyc. Ora, l’area nord di questo leggendario borgo americano è una delle zone più “in” della città.
Vicinissimo a Soho, ad angolo con Spring Street (l’ex rione delle gallerie d’arte, oggi soppiantato da Chelsea), Nolita è uno sfavillante crocevia internazionale per cool hunter, fashion addict, amanti dello shopping di tendenza.
Ma c’è un motivo, assolutamente singolare, che fa di questo posto una tappa obbligata per turisti e appassionati d’arte. È proprio qui, tra negozi chic, condomini di lusso ed estrose vetrine, che sorge il più grande tempio della creatività libera, abusiva e selvaggia. È qui che centinaia di guerrilla artists, in lotta contro un sistema dell’arte modaiolo, hanno programmato ripetuti assalti furtivi, lasciando le loro testimonianze sui muri del mitico “11 Spring Street”.
Si chiama così, come l’indirizzo in cui è ubicato, il vecchio palazzo disabitato all’incrocio con Elizabeth, proprio la street dove è nato Martin Scorsese. L’imponente struttura ottocentesca –quattordicimila metri quadri suddivisi in cinque piani, sessanta finestre sormontate da archi, intagli e decori in pietra- versava da tempo in un misterioso stato di abbandono: nessuno rivendicava la proprietà dell’edificio che, per il real estate newyorkese avrebbe avuto un altissimo valore commerciale.
La graduale appropriazione da parte della comunità internazionale di urban artist e graffitari fu naturale conseguenza…
C’erano dei muri vuoti, enormi, bellissimi, diventati quasi trasparenti nel via vai di una New York distratta. Muri a cui affidare immagini, storie, invenzioni anarchiche e poeticamente effimere. Muniti di bombolette, poster, sticker e pennelli, gli artisti di strada – sempre meno allergici a musei e gallerie, comunque fedeli alla logica dell’attivismo creativo metropolitano – iniziarono a ricoprire quei muri alla rinfusa: chi arrivava si prendeva il suo spazio e aggiungeva un pezzo alla straordinaria accumulazione in progress.
A partire da metà degli anni ’80 strati e strati di opere si sono sovrapposti, facendo di 11 Spring Street un vero fenomeno di costume, citato perfino daLou Reed in un album dei danesi Kashmir. Il palazzo abbandonato di Nolita divenne la Mecca del popolo della street art. Impossibile elencare i personaggi transitati nel corso di vent’anni: certo è che la storia del movimento ebbe qui alcuni dei suoi più significativi passaggi. In molti si sono chiesti, durante tutto questo tempo, a chi appartenesse la struttura e quale passato nascondesse. Edificato nel 1888, l’immobile fungeva in origine da stalla e deposito carrozze. Tra i proprietari più celebri, il redattore del New York Times Steven Kurutz ricorda tale John Simpson (eccentrico scenografo teatrale attivo negli anni ’70, appassionato di ingegneria e collezionista di strani oggetti meccanizzati) e più di recente il figlio del magnate mediatico Rupert Murdoch, Lachlan, che lo acquistò nel 2003. Il progetto di farne un lussuoso residence con piscina decadde già nel 2005, quando il ricco rampollo inglese decise di trasferirsi in Australia.
Nell’estate 2006 sul sito del prestigioso Corcoran Real Estate Group compare la scritta SOLD accanto alla scheda dello stabile. Caroline Cummings e Bob Elias, di mestiere investitori immobiliari, sono i nuovi proprietari. Per quale cifra? 14,75 milioni, dollaro più dollaro meno. Un affarone per il giovane Murdoch che a suo tempo lo aveva pagato “solo” 5,25 milioni. Stavolta il futuro della struttura è segnato: dopo un accurato lavoro di ristrutturazione, con inizio proprio a Gennaio 2007, Nolita avrà un nuovo prestigioso condominio trifamiliare. Che ne sarà del santuario newyorchese dell’urban art? Evitarne la scomparsa, a questo punto, diventa impossibile. Ma è qui che inizia l’ultimo atto della favola.

Destino volle che Ms. Cummings fosse assai sensibile al fascino dell’arte contemporanea. Cercando una maniera per offrire l’adeguato commiato al leggendario palazzo, la donna si imbatte in Marc e Sara Schiller, animatori di Woostercollective.com, importante sito americano dedicato ai nuovi linguaggi della street art. I due le avanzano una proposta, approvata a pieni voti: organizzare un three-day show chiedendo a decine di street artisti (tra i migliori sulla scena internazionale) di realizzare interventi ad hoc sulle pareti esterne e dentro i locali dell’edificio. Il risultato? Tra il 15 e il 17 dicembre 2006 11 Spring Street viene salutato con un funerale gioioso, una festa dedicata alla creatività in azione e alla bellezza evanescente, clandestina.
La storia di Wooster on Spring, sorta di Woodstock dell’arte, è dunque la cronaca di una morte annunciata. Finito lo spettacolo, la giungla di opere raccolte in un paio di settimane sarebbe scomparsa sotto chili di intonaco e mattoni.
Il successo dell’operazione è totale. Code interminabili il giorno dell’opening, un clamoroso tam tam mediatico, migliaia di persone in tutto il mondo parlano dell’evento e centinaia lo documentano con foto, video, racconti poi condivisi in rete. La mostra, completa di megaparty conclusivo, si merita un posto nella classifica dei “Best Show” del 2006 stilata dalla temuta giornalista Roberta Smith sulle pagine del New York Times.
Sono tre giorni di assoluto delirio. Il tour tra le stanze pare non finire mai. Una valanga di immagini squillanti esplode in tutte le direzioni, senza ordine, senza pause. Al pianterreno le mucche stralunate di Jace, pronte a trasformarsi in macabri tranci di carne, ricoprono una vecchia saracinesca; l’enorme There is Hell in Hello, nato dalla collaborazione tra il newyorchese Judith Supine e il veneziano Rekal (che ha raccontato l’esperienza nel suo diario in Exibart.blog all’indirizzo http:// rekal.blog.exibart.com), spalanca un universo visionario di pittura murale e collage; l’efficace graffito di Shepard Fairey è un rimando doloroso all’attualità bellica islamica; gusto pop fumettistico per il lettering colorato di Skewille, mentre il complesso lavoro di Elbowtoe, Everybody’s got one, svela un implicito richiamo all’11 Settembre. Altra perla del primo piano è Android, il piccolo umanoide dell’americano Nick Georgiou fatto esclusivamente con carta di quotidiani arrotolata. L’arte qui è ovunque, non c’è tregua al bombardamento visivo. È sulle pareti, sul pavimento (si cammina calpestando grossi pezzi di un puzzle), sui gradini delle scale (dipinti, disegnati, scarabocchiati uno per uno), sul soffitto che sovrasta lo spettatore con un immenso “You Are Beautiful“, tag tridimensionale dell’omonimo gruppo di artisti di Chicago.
Stessa delirante sovrapposizione di interventi artistici al secondo piano. Gioca col concetto di rete e interconnessione sociale l’installazione di Jasmine Zimmermann, composta da una moltitudine di sottili elastici colorati tesi in verticale e diagonale ad attraversare la stanza. Attraenti ed inquietanti i Domestic Babies di Prune, giovane parigina di talento che impressiona coi suoi piccoli esserini al guinzaglio, ibridi geneticamente modificati, metà bebé metà cuccioli d’animale.

A rappresentare l’Italia ci sono anche i milanesi Bo e Microbo che ricoprono gran parte delle pareti con una moltitudine di raffinati disegni ispirati a mondi sottomarini immaginari. Al terzo piano si è accolti dall’enorme Che Guevara di D*Face tramutato in scheletro sinistro, mentre tutt’intorno prosegue la sfilata di nomi internazionali: dal semplice wall paint bianco e nero di Kelly Burns, 11th Hour Burns, al geometrismo pittorico di JMR, dagli stencil di Lepos, buffi omini grigi arrivati dallo spazio, alla bellissima composizione di Gore B che mescola soggetti sacri a spunti cyberpunk.
Un piano più su Muck dipinge intorno alle finestre una avviluppata donna-serpente verde acido, mentre Lady Pink sceglie un rosa chiassoso per la sua audace Lady Liberty, dissacrante versione della Statua della Libertà.
E si continua, dopo l’ultima rampa di scale, con un nuovo intrico di segni e colore: Blek Le Rat, Jace, Iminentdisaster, Doze Green
Non sono da meno i muri esterni, anzi. Qui l’horror vacui raggiunge vertici esasperati. Non c’è centimetro che non sia coperto da disegni, adesivi, scritte, manifesti, pitture. Saltano all’occhio, in questa sorta di colossale diario per immagini, gli affiches di JR, grandi ritratti in bianco e nero catturati tra le banlieue parigine, e l’ironica Homeland Security Advisory Tower del Graffiti Research Lab, posta sull’angolo tra Elizabth e Spring Street: un’installazione luminosa che fa il verso allo scaltro allarmismo terroristico promosso dal governo statunitense.
Certo, alla fine dei giochi un po’ di amaro in bocca resta. E viene da chiedersi se davvero non c’era niente che si potesse fare per salvare l’ormai storica graffiti-house e la preziosa collezione di opere.

Ma pur volendo immaginarsi un estremo, plausibile salvataggio, quanto sarebbe stato coerente con la filosofia dell’arte urbana, per definizione precaria, transitoria, senza pareti, fuori controllo? Il mito della durata è soppiantato dalla passione per l’azione immediata e libera, come spiega lucidamente Woostercollective a Exibart: “La mostra a 11 Spring Street ha celebrato l’arte effimera fatta sui muri, non sulle tele. Per questi artisti ciò che conta è il piacere del fare arte, non quello di possederla dopo. Tutti noi troviamo molto eccitante l’idea che un’ arte così meravigliosa – sono veri capolavori – venga vista per un tempo brevissimo. Mentre la gente stava lì la pittura era ancora umida sui muri! L’arte che si preserva nel tempo non ha questo tipo di energia“. L’accettazione della deperibilità è un tutt’uno con la carica emotiva dell’istante rubato, ingoiato, vissuto. “Vogliamo che l’arte scompaia quando è al massimo della sua popolarità“, concludono Marc e Sara, che stanno già pensando di raccontare la vicenda in un libro. E magari, chissà, a qualcuno potrebbe venire in mente di farci un film con questa storia. In fondo, siamo sempre a Little Italy…


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www.woostercollective.com

helga marsala
ha collaborato barbara meneghel

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 36. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]



Visualizza commenti

  • e' stato uno degli eventi d'arte piu interessanti che abbia mai visto.
    da riempire l'anima , da strappare il cuore.

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