La stagione 2009-2010, inauguratasi con il controverso
debutto alla regia di
Emma Dante, sembra porta con sé spiragli d’innovazione in uno dei
luoghi più identitari della cultura milanese, solitamente molto prudente quando
si tratta di mettere in scena opere che hanno una tradizione perlopiù secolare.
È del resto ciò che il pubblico, che per ogni rappresentazione proviene da ogni
capo del mondo, chiede sostanzialmente alla Scala: di restare il più possibile quello
che è, nella sua più intima natura.
Colpisce così intravedere degli spiragli, timidi forse, ma
comunque sensibili di una volontà di ospitare progetti capaci di calare segni nuovi
all’interno di un mondo che corre il rischio di vedere il suo fascino
cristallizzarsi in quest’ambra dorata della tradizione. Meritano attenzione
quindi alcune opere di quest’ultima stagione, come l’appena conclusa
Da una
casa di Morti del
compositore ceco
Leóš Janáček, a firma del francese
Patrice Chéreau, già regista d’opere dalla fine
degli anni ‘70, ma forse ancor più noto come autore e attore di film controversi,
quali
L’Homme Blessé (1983),
La regina Margot (1994) e
Intimacy (2000), quell’
Ultimo tango a Parigi post-ideologico che ha segnato la
filmografia dei primi anni Duemila.
Dopo Chéreau è la volta di un’altra regia eccentrica,
quella de
La Fura
dels Baus, il
gruppo teatrale catalano che debutta il 17 marzo con il wagneriano
Tannhäuser in versione “Mehta-Fura”, ovvero
avvalendosi ancora una volta del sodalizio con
Zubin Mehta, il direttore d’orchestra indiano,
tra i più acclamati del nostro tempo, con il quale La Fura ha già portato in
scena la tetralogia di Wagner composta da
L’oro del Reno,
La Valchiria,
Sigfrido e
Il crepuscolo degli Dei.
La Fura, gruppo nato da quattro fondatori nel 1979 a
Barcellona, non è certo nuovo a regìe operistiche “alte”. Durante la loro
carriera hanno realizzato spettacoli multimediali spesso provocatori,
intendendo come fondamentale l’apporto e l’interazione del pubblico. Ed è proprio
attorno a questi elementi d’innovazione che il gruppo ha articolato negli anni
un percorso artistico riconoscibile e scandito da un vastissimo numero di
progetti e di relativi riconoscimenti, rappresentando probabilmente a tutt’oggi
l’esperienza teatrale sperimentale e insieme mainstream più apprezzata da un
pubblico eterogeneo, che ha accordato alla Fura quel consenso massmediatico, di
critica e di curiosi che è valso loro la collaborazione con brand quali Pepsi e
Mercedes, oltre alla cerimonia d’apertura dei giochi Olipici del 1992. La
capacità di creare grandi format di spettacoli che possiedono un appeal assolutamente
emozionale, denso ma tutt’altro che ermetico, e che al tempo stesso La Fura ha
sempre saputo parallelamente intrecciare con la più assoluta multimedialità per
la confezione e per la divulgazione di tali progetti.
Per queste ragioni, il gruppo che è nato inizialmente come
“teatro urbano” in cerca di un palcoscenico non convenzionale, ha saputo
individuare volta per volta spazi e contesti sempre nuovi: basti pensare alle
numerose installazioni interattive, agli spettacoli che sfrontatamente coinvolgono
il pubblico, alle video proiezioni o alle grandi produzioni che investono campi
come il cinema (la pellicola
Faust 5.0 del 1998 è un esempio), oltre a diverse incisioni
di album, agli eventi creati appositamente per il web, e infine agli “scandali”
artatamente costruiti come lo spettacolo
XXX (2002) che, insieme ad altre raffinate
provocazioni, ha valso loro il neologismo di ‘
Subkulturrabauken’ (‘teppisti della subcultura’) da
parte del giornale tedesco
Neue Musikzeitung.
Ed è così che il gruppo di Barcellona approda sui palchi
dei teatri d’opera lirica, caratterizzando i loro palcoscenici tramite
l’utilizzo di oggetti scenici molto particolari, spesso monumentali. Dispositivi
che si presentano, nella loro prepotenza visiva, come sculture che tramite
molteplici funzioni scandiscono il ritmo della narrazione e insieme hanno la funzione
di creare uno shock emotivo nel pubblico, annullando così la distanza tra il
pathos della scena e la quarta parete. Spettacoli che spesso impressionano, come
il recente
Le grand Macabre da un’opera di
Ligeti, che la Fura ha risolto
scenograficamente costruendo un gigantesco corpo umano, a tratti mostruoso,
come protagonista centrale della rappresentazione.
È tuttavia difficile immaginare una simile partecipazione degli
spettatori tra le paludate mura scaligere. Certamente, però, La Fura saprà stravolgere
il libretto di questa grande opera romantica che è il
Tannhäuser in una rinnovata messa in scena,
decostruita, trasfigurata nei suoi molteplici rimandi simbolici, facendo così
esplodere e rimbalzare ogni sfumatura dell’amore: cortese, celeste, virtuoso ma
anche, e soprattutto per La Fura, carnale e sensazionale.