Netmage nasce da una necessità. È proprio questo il termine che usa Angelo Guglielmi, assessore alla cultura del Comune di Bologna, per introdurre la conferenza stampa di presentazione dell’evento. È sempre lui a porre l’attenzione sulle possibilità offerte dalle nuove forme di linguaggio che devono distaccarsi irrimediabilmente da tutte quelle tipologie di segni, ormai logori, “che non parlano più”.
Il Festival cresce si allarga e contamina (come ha sempre fatto) ogni anno sempre nuovi territori, che, in quest’edizione, sono persino geografici. In che senso è da intendere questa “estensione”? Nel realizzarsi di un sistema co-produttivo, da applicare tanto alla sperimentazione tecnica, quanto alla rete di rapporti istituzionali che danno l’impressione di tendere alla stabilità. Stabilità che per altro sembra essere il leit motiv delle parole di Alberto Ronchi, assessore alla cultura della Regione Emilia Romagna, che più volte ribadisce la sua ammirazione per il network Xing e per la sua capacità di lavorare con fondi non degni della qualità mantenuta.
Dati tecnici, questioni e problemi a parte, anche quest’anno il programma non delude, anzi. Tanto per gradire durante la giornata di apertura (giovedì 25) avrà luogo uno degli eventi di maggior richiamo: Eyerophany. Emiliano Montanari (“cinematista nomapolide” come viene definito) cercando di spiegare in cosa consiste la performance da lui ideata, si lascia sfuggire definizioni diverse e a volte ermetiche come scena estensiva, live movie, web-cinema. Definizioni che confluiscono e si rivelano (o no?) nelle parole di Enrico Ghezzi: “vedere con nessun occhio o con l’occhio di nessuno”. E ancora, per rendere l’idea di che cosa accadrà, il noto critico cinematografico, parlando attraverso un cellulare a viva voce azzarda: “cercheremo di shiningare l’oscurità di David Lynch”.
Questa sensazione di indefinitezza, di aleatorietà, di mancato compimento è anche ciò che traspare da tutte le altre operazioni presentate dalle parole di Daniel Gasparinetti e Andrea Lissoni (art director del festival).
“Un conglomerato di discipline artistiche per cui non c’è definizione” dice John Duncan a proposito dell’esperimento che lo vedrà riflettere (concettualmente e fisicamente) sullo spazio ospitante, Palazzo Re Enzo, insieme alla voce “teatrale”, recitante una libera interpretazione da Othello, di Leif Elggren. Dal locale all’internazionale (si intenda per i contenuti, altrimenti si legga viceversa) nel viaggio di Opificio Ciclope, alla scoperta di un neonato culto pagano. La Santa Muerte è la protagonista di queste immagini, in veste di statuetta, anzi di centinaia di statuette portate dai devoti rumorosi e chiassosi nelle loro preghiere che hanno reso non facile il compito dell’artista sonoro, in accompagnamento alla “processione”, Egle Sommacal.
Andata e ritorno, dunque, il loop del Festival, che quest’anno sembra avere un occhio di riguardo verso tutte quelle strategie dell’immagine (e dell’immaginario) dedite alla documentazione, al catalogo del reale possibile. Così come vorrebbe la performance del gruppo Kinkaleri, introdotta da Silvia Fanti come la ricerca di “un’immagine non mediatica, bensì mediata”. Nella fattispecie dieci sconosciuti, trovati tramite una catena di e-mail, si troveranno ad interpretare figure del pathos, costruendo un classificazione di ritratti in sequenza temporale.
C’è spazio per elencare, senza soffermarsi, ancora qualche interessante iniziativa. Da un lato Kjersti Sundland e Anne Bang-Steinsvik (la prima già presente in città nei mesi scorsi per la rassegna Women in Revolt), impegnate in una ricognizione gelida e mostruosa della figura femminile nell’immaginario horror. Dall’altro Milanese-Stephen Whetman, proposto in collaborazione con PDF – Post Distorsonie Festival– per la gioia e l’estasi di timpani e padiglioni auditivi. E ancora Armin Linke e Carl Michael von Hausswolff, Carlos Casas e Sebastian Escofet e Charles Atlas e Chris Peck.
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