E nel concreto, come hanno risposto gli artisti?
Ciascuno lo ha fatto secondo le modalità che caratterizzano il proprio lavoro artistico. I disegni di Shawky riflettono non solo un circostante ma anche portano in emersione sulla pagina di iscrizione, sulla pagina bianca, quanto la sua esperienza quotidiana ha stimolato. I dittici fotografici di Takuma danno conto della sua relazione con il mondo, insieme circostante e senza tempo. Takuma ha perso la memoria più di trenta anni fa e vive in una dimensione assolutamente atemporale e la macchina fotografica è il suo unico legame con il mondo. Il progetto di Becheri si fonda sull’aver affidato a distanza a persone lontane dal mondo dell’arte, come i sei isan coinvolti in questo caso, la fattura di altrettante sculture.
Parte essenziale del progetto è il coinvolgimento del pubblico non solo in forma passiva, come nel caso dei poster diffusi da Surasi Kusolwong, ma anche attiva, e penso a Killing the time di Becheri. La tendenza alla desogettivizzazione nell’arte contemporanea mi sembra una pratica di ricerca proficua…
La tensione verso la desoggettivizzazione mi sembra una sana pratica oggi di contro alla sindrome negativa dell’occidente.
Le opere di Boonma e di Kruasaeng sono legate al mondo della trascendenza. Come interagiscono con il mondo materiale e quotidiano rappresentato dai lavori degli altri artisti in mostra?
Né per Montien né per Nim parlerei di trascendenza, che mi sembra un concetto molto occidentale da ambedue non condiviso.
Lei dice che Bangkok è la location perfetta per realizzare un progetto che vuole evadere i confini della galleria, cioè dei luoghi deputati all’arte, e mescolarsi con la vita che scorre al di fuori. Che esiti hanno prodotto gli interventi degli artisti sulla città?
Non ho possibilità di monitorare un eventuale feedback. Quel che invece mi è stato possibile accertare è l’effetto che la città ha avuto sugli artisti. La mostra è tuttavia insolita per questo contesto, data l’assenza determinata di densità e di forme che non rispecchiano la produzione, che viene mediata dai mezzi di comunicazione dell’attuale sistema dell’arte e dalla quale nella maggior parte dei casi un luogo defilato come questo è particolarmente impressionato. Nella Bangkok attuale esistono nuclei di espressività che non corrispondono ai canoni a cui la produzione del grande mondo si conforma e che per questo non trovano, o non hanno trovato ancora, una propria visibilità. Una mostra come questa dovrebbe indicare che ci sono altre possibilità e opportunità che si aprono anche per loro, senza dover subire modifiche necessarie o adattamenti di servizio per passare. Meglio “lost in translation” che omogeneizzati alla koinè della cultura dominante.
a cura di claudia paielli
[exibart]
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