«Fondamentalmente le mie opere hanno quasi sempre la natura di proposte». In queste poche ma significative parole si trova la chiave interpretativa della mostra personale Frauen dell’artista tedesco Thomas Schütte al Castello di Rivoli, curata da Andrea Bellini e Dieter Schwarz e aperta fino al 23 settembre. Una mostra esemplare, non soltanto per l’allestimento rigoroso e puntuale che restituisce alla Manica Lunga la sua funzione storica, ma soprattutto per le implicazioni teoriche che suggerisce. Un’esposizione che nasce dalla volontà di presentare per la prima volta tutte insieme le Frauen, diciotto sculture femminili realizzate da Schütte tra il 1999 ed oggi, provenienti da un nutrito gruppo di 120 bozzetti in ceramica, anch’essi esposti a Rivoli insieme a due opere realizzate per l’occasione, gli United Enemies: due grandi sculture in bronzo alte 4 metri, collocate nel piazzale all’ingresso del museo.
Fin qui le premesse, che attraverso il pensiero dell’artista si qualificano come proposte intorno alla natura della scultura contemporanea in rapporto allo spazio, ai materiali e, last but not least, alla storia dell’arte. Proposte che si traducono in momenti di riflessione complessi ed articolati, a cominciare proprio dalla relazione tra la scultura e il luogo che la ospita. Ed ecco la prima grande intuizione dell’artista: posizionare le opere al centro della Manica Lunga, riportata alla sua struttura originaria dopo anni di allestimenti che l’avevano camuffata con pannelli, pareti divisorie o altro. Con Schütte lo sguardo del visitatore riesce a cogliere la completezza dell’ambiente illuminato da finestre aperte sull’esterno, che la restituiscono ad una solida e ferma compostezza sabauda.
Così come avveniva nelle gallerie dei palazzi nobili italiani dal Rinascimento in poi, la Manica Lunga è uno spazio per presentare le sculture nella maniera più semplice e diretta possibile, mettendole in relazione con la luce naturale e per dare vita ad un ritmo della visione dove ogni elemento si fonde con gli altri, in un rapporto consapevole e misurato. Questo equilibrio permette quindi di analizzare le opere una per una senza sovrapposizioni, per soffermarsi quasi naturalmente sulla seconda proposta: i materiali. Qui Schütte apre alcune suggestioni che prendono le mosse da una serie di cortocircuiti, non privi di una certa violenza, tra fisicità e simbolo, memoria ed evocazione. Queste diciotto donne sono tutte posizionate su tavoli di metallo identici, che ricordano, nella loro inquietante e rozza semplicità, gli arredi di un macello o di un obitorio. Su queste basi essenziali giacciono le Frauen, che nelle loro componenti formali (ma non materiali) pescano a mani basse nella storia dell’arte, con una quantità di riferimenti allineati in un fil rouge che non trae origine dalla scultura, ma dalla pittura.
Le loro prime antenate sono le Veneri di Giorgione e Tiziano, languidi e rotondi corpi di divinità, per poi ricordare le sculture di Michelangelo nelle Tombe Medicee, le sante e beate in estasi di Bernini fino a cogliere la sottile e malinconica Paolina del Canova. È dalla silenziosa e tormentata angoscia manierista che Schütte trasferisce l’inquietudine provocata dalla rottura della regola, dalla scelta del disordine e della disarmonia rispetto all’ordine rinascimentale, traslato nell’assolutezza ideologica del Modernismo. Nel riportare alla luce la scultura femminile, l’artista intende «risvegliare a nuova vita questo universo figurativo recepito come troppo scontato in passato e di conseguenza trascurato», come suggerisce Dieter Schwarz. Schütte ci conduce con le sue Frauen in un repertorio di immagini noto e conosciuto, per obbligarci poi a metterne in discussione gli stessi fondamenti attraverso un altro punto di vista. E qui entra in gioco la conoscenza del materiale colta dall’interno, facendo “parlare” la materia stessa non per similitudini, ma per contrasti. Secchi, stridenti, a volte insopportabili. Le opacità polverose del corten con l’effetto cangiante dell’alluminio laccato, la sontuosa maestà del bronzo patinato con le lucentezze artificiali dell’acciaio, che giocano a rimpiattino con i rimandi al Novecento, da Maillol a Picasso, da Matisse a Moore. Materiali ed immagini che si sovrappongono, in un labirinto di suggestioni che partono e arrivano allo stesso punto: scultura e statuaria possono parlare la stessa lingua all’alba del Ventesimo secolo? Se non rinunciano a dialogare con il presente per vagheggiare un remoto passato, la risposta è sì.
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