Tomas Rajlich, rigore e glitter

di - 22 Agosto 2018
Il profumo di una certa old school inizia a diffondersi col “silenzio stampa” cui si appella in occasione dell’antologica “Fifty years of painting”, a cura di Flaminio Gualdoni. Divismo e clamore mediatico da consumata star artist non fanno per Tomas Rajlich (Praga, 1940), che proprio non ama parlare in maniera “ufficiale” delle sue nozze d’oro con la pittura, cinquant’anni che Abc Arte mette in mostra con un certo orgoglio. Antonio Borghese ed il suo staff ne hanno ben donde, il personaggio in questione ha storia da vendere, protagonista internazionale della tradizione Analitica, ma anche tra i più lanciati verso lo sconvolgimento di una corrente dominata dal mutuo distacco pensiero artistico-gesto fisico. Comportamento da avanguardista puro, in grado di sperimentare fino a costituire una scena visivo-concettuale a propria immagine e somiglianza. Potrebbe tirarsela pure, ma niente da fare, non lo si schioda dalla sua innata “sobrietas”.
Dagli anni Sessanta ad oggi Rajlich s’è costruito una cifra pittorica per certi versi dominata dall’ambiguità dei suoi termini pratico-estetici, e la festa genovese non fa altro che illuminare questa prerogativa dell’artista con una selezione di pezzi funzionalmente mirata, presentata come un percorso più squisitamente diacronico che cronologico, aperto nel rimaneggiare la consecutio temporum spontanea tra opera ed opera. Nei suoi spazi Abc Arte propone un Rajlich a ciclo continuo, una corrente temporale infinita per cui passare dagli anni Settanta ai primi Duemila è facile quasi fossero ad un tiro di schioppo l’uno dall’altro. Una buona novella, in quanto praticamente regala nuove possibilità di contatto col lavoro di un artista iconicamente miliare nella storia dell’arte contemporanea, nonché fa si che la soglia dei cinquant’anni – mica bruscolini – non diventi il limite per una sorta di via crucis più o meno codificata, composta e silenziosa.
Tomas Rajlich – Buri – 2002 – acrilico su tela – cm 150×150 – courtesy Abc Arte
Muoversi col corpo è fondamentale quanto farlo a livello cerebrale, ché altrimenti sarebbe impossibile cogliere i punti di giuntura tra risultati pittorici divisi dal tempo e distanti quanto due rette parallele che non s’incontrano mai. Storie lontane solo apparentemente, come due Untitled datati rispettivamente 1972 e 2010, in cui la pennellata bianca piatta del primo – così leggiadra nel coprire/agitare/sovvertire il sistema a griglia spessa tipico del decennio – è mutuata nel bianco perlescente ed aggettante del secondo. Stesso nervosismo spontaneo, stessa personalità espressa che, tra l’altro cementificandosi organicamente nel tempo, ha portato Rajlich a crossare in maniera sempre più netta tra analiticità ed espressionismo, quasi quella col rigore di un sistema spazio-pittorico ordinato diventasse un match continuo per altrettanto continue sperimentazioni. Ed entro un tale ordine d’idee Rajlich appare del tutto ossessionato dalla geometria del quadrato, più precisamente dal suo rigore impresso in spesse griglie, elemento che l’artista praghese si gioca in comune col nostro Claudio Verna e caratterizzante per i suoi anni Sessanta-Settanta, rielaborato in versione più asciutta stile pagina di quaderno nei primi Ottanta, fino a sparire dal decennio successivo in poi. Una geometria che comunque l’artista non ha mai tradito veramente, estraendola in tempi recenti come pattern solitario in grosse tele monocrome che divengono soprattutto “mono-geometriche”, dove la “forma quadrato” è impressa unitariamente ed espressa matematicamente da quei tre centimetri circa di superficie di supporto che l’artista non ha coperto con l’acrilico. Tela nuda e pittura bianca tagliata di netto, ma lasciando che il perimetro lineare del quadrato si perda in pennellate libere e colature sovrapposte, giusto per continuare a non cedere agli schemi, magari indicando anche il tassativo orientamento dell’opera intera.

Tomas Rajlich – Untitled – 1972 – acrilico su tavola – cm 77×75 – courtesy Abc Arte

Da impostazione l’antologica è una fucina per scovare e rivalutare situazioni artistiche a prima vista legate da un filo sottile. Ma molto resistente, come tra le gradazioni in rosa di due Untitled di metà anni Novanta e di Buri del 2002, speculari al nero del mastodontico Untitled datato 1978. L’evidenza del contrasto gioca la sua, ma non è tutto e non chiude la manche: quei tre rosa in prima linea catturano, attirano con una ruffianeria che è il prodotto determinato dalla loro texture materica in bianco, dalla monocromia “tonalmente agitata” di un acrilico steso in velatura, ed infine dai glitter, che illuminano l’intera tela evidenziandone le particolarità superficiali. Di converso, e dietro l’angolo, entrano in gioco ben 250×210 centimetri di nero, forte di una pennellata simulante quasi un piumaggio, inghiotte lo sguardo senza provare ad adularlo, con la stessa violenza con cui ingloba la tipica struttura a reticolo. E il contrasto iniziale si risolve in una lotta interstellare tra universi estetici sicuramente lontani in molti sensi, e così vicini quando si rileva che quelle sporgenti texture ad acrilico, elaborate a modo e maniera di un bassorilievo, sono l’ennesima reincarnazione nell’opera di Rajlich di una struttura fisico-geometrica e cromatica, tanto quanto le ancor più recenti estensioni di solchi plastici ottenuti lavorando impasti di sabbia finissima tramite spatola americana.

Tomas Rajlich – Carmenta – 2003 – acrilico su tela – cm 120×100 – courtesy Abc Arte

Parte del presente rajlichiano è racchiuso nella parola magica “glitter”, simbolici dell’ultima produzione dell’artista praghese, che all’interno di una potenza pittorica organica nelle sue mutazioni genetiche/innovazioni piovono come una tassa. Un effetto massicciamente sparkling che potrebbe dividere gli animi: Rajlich osa troppo, oppure è proprio in certe operazioni la chiave di una contemporaneità artista capace di cavalcare l’onda dei suoi tempi, con annessi e connessi gusti estetici? Per certi versi immaginare un professionista di tal caratura alle prese con glitter (un uso smodato da far invidia alle fashion blogger ed alle cultrici del make up) e monocromie chiassose ricostituenti per qualsiasi scialbo loft metropolitano (un insieme che aspira a diventare la prossima bandiera arcobaleno, dal fucsia al giallo, dall’argento al lilla brillante all’arancio pesca acceso) fa effetto, almeno per tutti quei poveri cristi abituati alle certezze della Pittura-pittura, del monocromo alla Manzoni o alla Klein, anche se quest’ultimo a partire dal suo blu già presentava velleità un po’ più spinte. Dagli esordi il target di riferimento collezionistico è cambiato, più che altro s’è nettamente allargato, e con esso il bacino di papabili seguaci/estimatori; sull’iter di ricerca però non c’è storia, quello non si tocca, ed un Rajlich oggi piuttosto incline a promozionare fascinazioni estetiche gradite al lifestyle odierno – assumendo un po’ il ruolo dell’influencer – è solo adeguamento ai tempi. O è per natura l’artista, inteso come categoria sociale, ad essere il primo degli influencer?
Andrea Rossetti

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