Come ha fatto Torino, in questi anni, a cambiare culturalmente d’abito?
Dieci-dodici anni fa Torino s’è scelta il ruolo di una città che decide d’investire nella cultura per aiutarsi a cambiare, a rivitalizzarsi dopo la crisi economica, dopo la ciclica crisi d’identità che l’ha attraversata e dopo la serie di crisi che hanno coinvolto settori importanti come quello dell’automobile.
E che è successo?
Da quel momento in poi, Torino è diventata una città sperimentale, ponendo come primario asset strategico quello della cultura, asset che in verità non è mai stato completamente scisso dalle attività che si svolgono attraverso i processi di produzione. A Torino investiamo nell’ambito culturale perché bisogna continuamente rinnovare l’atto di riconversione del capoluogo, atto che l’ha portata a diventare protagonista di eventi internazionali come le Olimpiadi o di iniziative come il World Design Capital.
Così la città si modifica…
Grazie a queste occasioni, infatti, è stata data nuova forza al rinnovamento urbano e architettonico del centro storico, compiendo notevoli passi avanti verso l’instaurazione di un piano di marketing dei servizi che monitorasse con costanza i diversi spazi adibiti alla cultura. Musei, cinema, teatri e scuole di danza. Così, mentre abbiamo lasciato che la storia fosse fatta dagli altri, qualcuno, dall’interno del Comune, qualcuno come me, funzionario del settore attraverso il mio staff, ha invece collaborato a cambiare la vita del cittadino, ampliandone la visione estetica. Grazie alla ripercussione che alcuni appuntamenti culturali hanno avuto, il successo è stato realmente percepito dai cittadini, perché promosso nel quotidiano.
Come si fa, nella pratica, a promuovere una città a livello internazionale?
Innanzitutto si partecipa a bandi internazionali, promossi in prevalenza dalla Comunità Europea. Al loro interno vengono richiesti alti livelli di presentazione della città, che deve mettere le proprie potenzialità a disposizione di sistemi quali la musica, il cinema, il teatro, la letteratura e via discorrendo. Bisogna instaurare nei diversi ambiti un’unica operazione di coordinamento, un sistema di eventi e mostre che rilancino all’estero tutti gli altri sistemi, in maniera unitaria e assieme indipendente. Fuori dai nostri confini deve riverberare un’identità urbana e nazionale in grado di dare coralità a tutti i soggetti artistici presenti sul territorio.
La famosa sinergia, il “fare sistema”…
Amministrazione pubblica e privati devono dialogare, operando una ristrutturazione globale, per esempio aumentando i rapporti e dunque i punti di contatto con l’entità-turismo. Le grandi ondate fieristiche annuali come il Salone del Gusto, il Salone del Libro o l’iniziativa di Luci d’Artista sono tre differenti programmi inventati dalla città di Torino per dotarsi di strutture in grado di compiere una precisa azione sinergica. Un ritorno d’immagine che può contare, oggi, su una lista di richieste di istituzioni di portata mondiale, che ambirebbero a promuovere eventi in città. Parlo di possibili campionati di scherma, di danza o degli scacchi, che radicherebbero così un’alternanza di presenze nel tessuto urbano, tenendolo costantemente attivo e in grado di rinnovarsi.
In L’arte dello spettatore, il libro che ha recentemente curato per le edizioni Franco Angeli, da quali punti di vista viene esaminato il meccanismo-cultura all’interno dell’economia dei consumi?
Spesso la crisi economica dei beni di consumo porta a una riduzione del paniere, tanto dell’offerta quanto della domanda, dei beni e dei servizi culturali. Nella pratica della vita quotidiana si assiste così a una riduzione della vendita dei libri, a un calo del ticketing nell’industria del cinema, facendo sì che venga poi giustificato il taglio del trentacinque per cento delle risorse del F.U.S. Più tagli vuol dire meno soldi in circolazione, dunque meno iniziative e meno offerte per il pubblico. Il libro nasce da considerazioni fatte precedentemente alla crisi attuale, sebbene indaghino il cambiamento della società in merito alla quantità e alla qualità dell’offerta culturale.
A Torino come si fa a incontrare l’arte?
Per noi la città dev’essere un punto d’incontro che non deve creare alcuna distanza con il cittadino, ma deve educare, fin dalle scuole, a fruire il fattore estetico come un evento che si assorbe ogni giorno, all’interno e all’esterno di tutte le strutture pubbliche. Il pubblico non deve essere solo oggetto di monitoraggio, ma dev’essere orientato verso l’arte contemporanea, avendo la possibilità di creare un gusto estetico di tipo privato, accrescitivo e personale. Esistono meccanismi di fidelizzazione all’arte, come l’appuntamento della Triennale, o strumenti come la Carta Musei, che permette con soli quaranta euro all’anno di poter fruire in maniera illimitata di mostre ed eventi, evitando al visitatore di dover seguire la limitatezza temporale del biglietto d’ingresso. Solo conoscendo e assaporando gli artisti e le opere si riescono a riconoscere i diversi linguaggi creativi che cambiano costantemente, rendendo subito obsoleto, nel giro di qualche anno, il rapporto tra pubblico e contemporaneità.
Qual è l’identikit, qualora esistesse, dello spettatore ideale?
Non c’è uno spettatore ideale. Bisognerebbe però che, se esistesse, fosse sempre informato e che non dimenticasse mai di coltivare una propria sfera di fruizione individuale della cultura, una modalità educativa giornaliera che includa l’arte come un piacere estetico. Solo la compartecipazione e il dialogo tra ente pubblico e singolo individuo può creare una società che mette in risalto la strada da intraprendere per pianificare nuovi dibattiti, questioni e strumenti che instaurino un processo per aumentare il benessere della vita quotidiana anche non conoscendo alla perfezione le aspettative del pubblico. Bisogna far sì che lo spettatore ideale abbia le condizioni economiche e sociali che gli permettano di crescere affezionato ai contenuti culturali, affinché non li consideri solo un orpello, ma li inserisca nei propri bisogni. Sentire l’arte deve far parte di ogni ambito della vita umana in modo fondamentale. Allora un’offerta pensata tailor-made, per una domanda riconoscibile e presente, fa sì che lo spettatore accetti la funzione pedagogica della cultura e che costituisca un sistema di stati d’animo come se fosse un modello di ricezione dell’arte.
Qual è lo scopo ultimo di un’amministrazione che funziona?
Rendere piacevole la fruizione dell’arte e continuare a farla piacere, come fattore indispensabile per un’esperienza percettiva. L’arte deve diventare, per lo spettatore, una ricerca continua e composita, un sistema razionale che permette a substrati emotivi di renderla un ambito forte, una coscienza che penetra nei sensi di regolazione della routine quotidiana, creando un modo unico di vivere.
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