I Feel Blue, è un’espressione idiomatica che tratteggia uno stato d’animo difficile da definire, se non altro si riferisce a un sentimento di tristezza. Ma è anche la “forma emotiva” del Novecento, il colore, il sentimento più utilizzato per raccontare il dramma del mondo moderno. Nalini Malani è una fine interprete di questa stagione. Artista indiana tra i precursori dell’arte contemporanea nel suo Paese, viene omaggiata con la prima retrospettiva a lei dedicata sia in Francia che in Italia. “The Rebellion of the Dead” è un’esposizione che fa parte di un progetto nato dalla cooperazione internazionale fra musei e suddiviso in due parti: presentata al Centre Pompidou nell’ottobre 2017, ora è esposta presso il Castello di Rivoli con una diversa selezione di opere. La mostra, a cura di Marcella Beccaria, è accompagnata da un ciclo di incontri curato da Carolyn Christov Bakargiev e della stessa Malani, in cui artisti, critici e studiosi dibattono sul tema della violenza contro le donne.
Il destino decide per Nalini Malani un legame inscindibile con il suo popolo. Nel 1947 i britannici appoggiarono la nascita di due Stati sovrani come India e Pakistan, in seguito il subcontinente indiano fu sconvolto da una serie di guerre di religione fra induisti e musulmani. Malani ha rincorso per tutta la vita un’idea dell’arte viscerale, o se vogliamo patriottica, a favore delle donne e dei più deboli, facendo del cambiamento radicale l’elemento essenziale del suo processo creativo. In Malani ciò che è pittorico diventa filmico, e ciò che è teorico si trasforma in azione in movimento. La scrittura espositiva o “flusso irregolare” inizia con un murale effimero o performance di cancellazione. In City of Desires – Global Parasites il murale viene creato per poi essere distrutto, perché l’intento è sottrarlo al mercato dell’arte al termine dell’esposizione. Dagli anni ’90 in poi l’artista si avvale di questa pratica al fine di esaltare i valori legati alla poetica dell’opera trascurando il dato economico. L’ala spezzata, simbolo di violenza, il volto di un “dalit”, che nel sistema delle caste indiane rappresenta i fuori casta destinati a svolgere attività impure, i dettagli di una città come Bombay, verranno cancellati: l’opera vivrà per sempre nel ricordo delle immagini. All wall drawing sovrappone la proiezione del film muto 8mm stop – motion a pellicola rovesciata Dream Houses (Variation I), opera realizzata nel 1969, influenzata dal rapporto con architetti come Charles Correa e Richard Buckminster Fuller, e dagli artisti del Bauhaus come Johannes Itten e Lászlό Moholy-Nagy, con riferimento agli effetti sociali dell’architettura e dell’urbanistica nell’India moderna.
Nalini Malani, The Rebellion of the Dead. Retrospective 1969-2018. Part II
La danza tra immagini lineari e confuse, nella variazione che va dal pittorico al filmico, è alquanto significativa in The Tables Have Turned, installazione composta da una molteplicità di cilindri rotanti dipinti al rovescio, laddove il blu dell’acrilico ha un tono ceruleo e pare acquerello e la luce forma un fraseggio d’immagini per poi diventare ombra, una zona semioscura come una pozza d’acqua in cui le ombre in movimento ribaltano in un abisso la brillantezza del colore. Durante il primo incontro in programma
Mieke Bal, artista, performer, già critica e teorica dell’arte, interpreta il lavoro di Nalini Malani attraverso le teorie filosofiche di Henri Bergson: lo paragona a una «Percezione concreta in cui interviene la memoria, e la soggettività delle qualità sensibili è dovuta proprio al fatto che la nostra coscienza, che inizia con l’essere memoria, prolunga una pluralità di momenti l’uno nell’altro contraendoli in un’unica intuizione», seguendo Bergson. Questo piano d’immanenza o flusso d’immagini è maggiormente riconoscibile nella sala dedicata alla pittura. Nel polittico Twice Upon a Time tutto è sorretto da nembi e grumi contigui dove i soggetti sembrano galleggiare, e non vi è alcun bisogno di particolari soluzioni espositive perché il gesto è già forza e sostegno del suo essere: la pittura riempie lo spazio e trasmette i suoi fondamenti teorici.
Nalini Malani, The Rebellion of the Dead. Retrospective 1969-2018. Part II
Secondo Mieke Bal, «L’arte di Malani è profondamente politica, è un moto che produce una “visione attiva”, che riflette sulle conseguenze devastanti delle guerre, dei fanatismi religiosi e dei disastri ambientali, partendo da riferimenti come la mitologia greca e la cultura orientale», basti pensare alla figura di Cassandra, figura afona e ricorrente, sacerdotessa troiana inascoltata dagli uomini. In Cassandra la figura del mito viene moltiplicata in tre sagome, fra le quali prorompono membra e organi che restano fluttuanti e ben rappresentati nel piano pittorico – non a caso Malani ha mantenuto questo virtuosismo nella manualità come conseguenza dei suoi trascorsi di illustratrice di manuali di medicina –, è allora che le campiture di giallo ocra e porpora rivelano una figura che purtroppo è ancora presente nel nostro tempo. Nella video installazione a 5 canali ispirata al saggio dell’antropologa Veena Das Language and Body: Transactions in the Construction of Pain (1996), l’artista racconta il dolore di un popolo, esamina il periodo della ripartizione del paese e gli scontri tra fazioni in cui proprio le donne ebbero la peggio. Rapportarsi ai lavori di Nalini Malani significa contemplare un’artista capace di raccontare il mondo sensibile, dai lavori caratterizzati da una grande narrazione intuitiva. Si percepisce tutta la sua esperienza di vita, che poi è l’opera stessa.
Rino Terracciano