Tra i vari visà-vis di scena attualmente in laguna: la “mostra ready-made”, come definisce il curatore Germano Celant il remake di “When attitudes become form”, che si specchia in un fedele riallestimento confezionato oggi, slittamenti e focus su gesto e colore che fanno incontrare Tintoretto con un altro veneziano (Vedova), ce ne è uno che ha la forza del puro spettacolo dell’arte: il confronto tra l’Olympia di Manet e la Venere di Urbino di Tiziano, che la mostra “Manet. Ritorno a Venezia” impagina in una delle prime sale del percorso espositivo a Palazzo Ducale.
Provate a guardare questi due capolavori con gli occhi del curatore Stéphane Guégan che, con l’indispensabile avallo di Gabriella Belli, direttore dei musei civici veneziani, ha osato l’azzardo, e rimanetene incantati per tutto il tempo che il vis-à-vis reclama.
In poco più di 300 anni (la Venere di Tiziano data 1538, l’Olympia di Manet è del 1863), il pittore francese trasforma il simbolo erotico dell’amore coniugale, commissionato a Tiziano da Guidobaldo II di Montefeltro in una ragazza da vetrina che potrebbe affacciarsi dal quartiere a luci rosse di Amsterdam. La trasforma, ne aggredisce l’aura, la degrada, facendone però un altro simbolo erotico e soprattutto una pietra miliare della pittura moderna. Provo a riportare a caldo i vari dettagli come li ho visti nella mostra in corso a Palazzo Ducale fino al 18 agosto.
La mano che la Venere di Tiziano appoggia mollemente sul pube, in Manet si trasforma in un gesto assertivo, quasi da rivendicazione protofemminista: uno “sbarramento” lo definisce il curatore. L’incarnato del viso e la tonalità di tutto il corpo, da dorati e invitanti, si fanno pallidi. La postura, anziché abbandonata nel canapè, è irrigidita, quasi di sfida. Lo sguardo, serenamente allusivo della Venere, nella giovane prostituta raffigurata da Manet diventa indifferente, quasi vitreo. Non c’è complicità con chi guarda, la pittura si è fatta autonoma, parla per se stessa. I piedi, non più nudi, calzano degli zoccoletti molto cheap. Un gatto nero, ritto e pronto a graffiare, prende il posto del cagnolino placidamente addormentato, simbolo della fedeltà. Lo sfondo in cui Manet incornicia la sua scena è cupo, claustrofobico, si chiude nella stanza dove la ragazza si mostra. Non c’è affaccio al mondo, apertura ad esso, come in Tiziano. E, al posto delle ancelle operose che questi aveva collocato sullo sfondo della scena, c’è una donna nera, che interroga con sguardo perplesso la ragazza, complice e incerta di questa dubbia mise en scene.
Difficilmente un confronto tra due opere è stato più audace e appassionante. È raro che capiti di vedere raccontata tanta storia dell’arte. il cambiamento dei valori, del gusto, del modo di dipingere, dell’idea di mondo, come attraverso questi due quadri.
L’azzardo è notevole, ma non infondato. Ed è su questo assunto che si gioca la scommessa della mostra: portare alla luce il modello culturale che tanta parte ebbe nella formazione del giovane Manet, espresso dalla pittura italiana del Rinascimento, in particolare da quella veneziana con Tiziano e Tintoretto.
Manet ha frequentato lungamente l’Italia, ci ritorna a varie riprese e ne studia la pittura, come attestano i tanti disegni e schizzi in mostra. E sicuramente ha visto e studiato la Venere di Tiziano, ma poi ci ha messo del suo. Elaborando, a partire da un virtuosismo manuale che ne fa un eccellente disegnatore, una scelta di campo pittorica totalmente contraria ai canoni del momento (nascente Impressionismo compreso). Manet non indugia con il colore, lo stende piatto sulla tela e con tonalità fredde, come è nel caso del Piffero, ricopre, annullandolo, lo sfondo. Non si intrattiene neanche con il pennello, ma dà pennellate decise che tratteggiano figure e composizioni in maniera quasi assertiva, dove a volte il volto è lasciato in secondo piano rispetto ad alcuni dettagli scenici (come nel caso del Balcon, i cui fiori sono più “curati” delle facce dei protagonisti). Nonostante una tecnica apparentemente sbrigativa, Manet è insuperabile nell’uso del colore nero, come appare magistralmente nel ritratto di Berthe Morisot, facendolo vibrare di tonalità, pur negandole. Ma è soprattutto nell’espressione dei volti, spesso non comunicanti tra loro, come appartenenti a soggetti distanti e non interessati l’uno all’altro – la prima volta della “non relazione” tra i personaggi è con la scandalosa Déjeuner sur l’herbe, dove l’abbagliante nudità della figura femminile cattura l’attenzione, penalizzando la pur interessante indifferenza delle due figure maschili – a collocare Manet sul binario della modernità. Facendocelo oggi apprezzare moltissimo, dopo che in vita questo suo modo di dipingere era stato violentemente osteggiato.
Sì, anche Manet nella Venezia degli outsider costruita da Massimiliano Gioni, merita un posto di rilievo. Fino all’ultimo le sue opere, così spiazzanti rispetto a quello che all’epoca doveva essere la pittura, sono state rifiutate dai Salon, le esposizioni che seguivano, come diretto prolungamento, le Accademie di Belle Arti. Ma lui, contando solo sull’appoggio di alcuni illustri intellettuali dell’epoca, Zola, Antonine Proust (l’amico di più lunga data), Mallarmé, non molla e a ogni rifiuto rilancia.
La prima sfida, come s’è detto, è con il Déjeuner sur l’herbe, poi è la volta dell’Olympia, poi il Balcon, Lola Melea, il Piffero e i vari ritratti di Berthe Morisot, anche lei pittrice e complice che poi sposerà il fratello di Eduard Manet. Ogni volta una bocciatura, la critica ufficiale non riesce che a gridare allo scandalo, non solo per i soggetti raffigurati, quanto per il modo in cui Manet li raffigura: sciatto, volgare, imperdonabilmente anarchico. Talmente ostinato è il rifiuto del mondo accademico che tra i volti della folla ritratti nel Ballo in maschera all’Opera, Manet mette pure il suo, con la solita espressione distante ma questa volta anche disillusa, quasi ironica, certo del rifiuto che sta per incontrare anche quell’opera.
Quello tra la Venere e l’Olympia non è il solo confronto che la mostra di Venezia attiva tra Manet e altri celebri autori italiani: il ballo in maschera duetta con Il Ridotto di palazzo Dandolo a San Moisè che Francesco Guardi ha dipinto poco più di un secolo prima. Ma come sono cambiati il mondo e la pittura nel frattempo! Tanto il ballo di Manet spinge lo sguardo e la fantasia in una dimensione pubblica: il ballo, gli incontri casuali, la sorpresa, la folla nella quale tutto può accadere, tanto insomma vibra di tensione erotica, tanto l’altro mostra una scena chiusa, un ballo in maschera e nient’altro, dove c’è poco da fantasticare.
La fantasia invece corre veloce attraverso l’ultima produzione di Manet che occupa la sala finale del percorso espositivo: le marine, e finalmente anche tra mercanti e collezionisti qualcosa si muove: Paul Durand-Ruel acquista molte opere e di fatto lo lancia sul mercato, Antonin Proust diventa ministro e la sua protezione comincia a pesare. Tra le opere che hanno per oggetto il mare, ce n’è una particolare, a proposito di raffronti e slittamenti, che stranamente non è stata ancora ripescata da un artista contemporaneo. La Fuga di Rochefort è un quadro con tanto mare e una piccola imbarcazione in fuga dalle onde. Ai remi vi è un uomo, che si volta a guardarci, mentre gli altri rivolgono lo sguardo all’orizzonte, che intuiamo gravido di attese.
È dipinto con una prospettiva grandangolare, come le tante immagini che abbiamo visto in tv degli inseguimenti, le richieste d’aiuto delle barche cariche di clandestini in fuga dai loro Paesi. L’ultramoderno Manet si congeda così, muore a 51 anni stroncato da una malattia non riuscendo a presentare l’opera al Salon del 1883, con un immagine che parla del mare. E del nostro presente.