Tra “aria” e arte

di - 1 Settembre 2018
...scialo da gran signore / rime ed inni d´amore. Per sogni, per chimere / e per castelli in aria! / l’anima ho milionaria. Queste le parole cantate in uno dei più popolari momenti della storia del teatro d´opera, L’aria Che gelida manina, con cui il poeta Rodolfo si presenta alla timida fioraia Mimí nel primo atto de La Bohéme di Giacomo Puccini. Versi da cui viene estratto il titolo – Per sogni e per chimere – di una mostra che, cogliendo l´occasione dei 160 anni dalla nascita del musicista e, strada facendo, trasformatasi anche in un omaggio postumo alla nipote del maestro, Simonetta Puccini, offre un contributo importante non solo per delineare i rapporti fra Puccini e l´arte, ma anche per rendere meglio riconoscibili alcuni aspetti meno noti del clima culturale italiano a cavallo fra Otto e Novecento. La ospita a Lucca la Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, che – piace rammentarlo – prima della mostra in corso ha magnificamente onorato la memoria critica di Mario Nigro con un’esposizione fra l’altro ancora visitabile fino al 2 settembre alla Fondazione Ghisla Art Collection di Locarno. L’allestimento di quella puccininana è frutto dello sforzo comune della citata fondazione in collaborazione con vari soggetti, fra i quali il Centro Studi e la Fondazione Giacomo Puccini di Lucca.
Per sogni e per chimere, vista della mostra
Spiega bene le finalità della mostra Paolo Bolpagni, il quale, oltre a essere con Fabio Benzi, Maria Flora Giubilei e Umberto Sereni uno dei suoi curatori, è anche il Direttore della Fondazione Ragghianti, e nel suo duplice compito firma altrettanti contributi al ricco catalogo: “… Riflettere sul suo gusto visivo e sull´evoluzione che esso subì nel corso del tempo, e sulle vicendevoli connessioni tra l´estetica del compositore e quella della pittura e scultura italiana dagli anni Ottanta dell´Ottocento fino alla metà del terzo decennio del XX secolo, tentando di restituire un quadro non episodico, bensì atto a delineare […] i tratti e i confini di una sensibilità, di un immaginario, di un clima espressivo di cui Puccini fu volta a volta interprete, talora ispiratore, spesso intuitivo e geniale tramite”. Bolpagni considera questo suo impegno come momento di studio successivo e dialettico rispetto ad una precedente esperienza curatoriale al veneziano Palazzo Fortuny sull´influenza di Richard Wagner sulle arti visive in Italia. Le conclusioni lo portano a dire che se si può parlare di una pittura wagneriana, o wagnerista, allo stesso modo non si può dire la stessa cosa per Puccini. Certamente è così, ma ciò non toglie che il rapporto di Giacomo Puccini con le arti figurative sia stato ricco di motivi e stimoli. Lo si potrebbe definire ambivalente. Ambivalenza diretta e indiretta. Diretta, perché Puccini, come altri grandi e meno grandi musicisti aveva rapporti di amicizia con artisti conterranei e contemporanei, al punto da fondare con alcuni di loro un vero e proprio sodalizio dal titolo non casuale, Club La Bohéme. Nomi meno conosciuti, come Francesco Pagni o i Tommasi, qui si mischiano al più noto Francesco Fanelli, presente in mostra con un delizioso paesaggio lacustre (Il fosso) di fine secolo che pare anticipare tonalità che saranno del chiarismo lombardo, ma soprattutto a un Plinio Nomellini non ancora divisionista, specie nel ritratto di un giovanissimo Lorenzo Viani, anch’egli frequentatore del sodalizio di Torre del Lago.
Luigi Conconi, Ritratto di Giacomo Puccini, 1885-1890 circa
Dal padule veniamo proiettati alla Milano che Giacomo conosce presto, introdotto dai fratelli Fontana e da Alfredo Catalani, già noto collega anch´egli lucchese. Stanno a testimoniarlo il ritratto di Benedetto Junk, mecenate, collezionista e musicista dilettante, opera di Tranquillo Cremona, e della bellissima moglie di Junk, Teresa, amante di Catalani. Sempre a quel periodo risale un disegno caricaturale dell´amico Leonetto Cappiello, che ritrae il compositore seduto a un pianoforte curiosamente stilizzato per l´epoca. Non mancano altre caricature, alcune dello stesso Puccini, che mostrava anche “sul campo” le personali attenzioni per le arti figurative. Altri ritratti segnano il percorso, primo fra tutti quello di Arturo Rietti, più denso e significativo di quello del ben più celebre Boldini.
Ambivalenza. Si diceva di quella diretta, delle relazioni personali. Quella indiretta va cercata nel contesto. Le opere in rassegna raccontano di una temperie culturale, letteraria, artistica, quella della tarda Scapigliatura milanese, alla quale Puccini si abbevera, al tempo stesso prendendone spunto per allargare i confini di quella stessa temperie oltre i confini spaziali ed espressivi. L´impressione più viva che si trae dalla visita è proprio questa: la mostra è in grado di far rimbalzare suggestioni, e con esse articolate considerazioni, derive visive, e piú generalmente percettive, della complessità drammaturgica pucciniana. I rimbalzi sono di tipo geografico – una geografia immaginaria e immaginata, si direbbe ariostesca – che va dal tosco vernacolo lucchese e versiliese, attraverso l´eco della Ville lumiére, alle immersioni nell´esotismo, soprattutto gli orientalismi di Butterfly e Turandot. Durante la visita par di assaporare gusti odori e colori del Café Momus piuttosto che le lande desolate del finale di Manon Lescaut o di Fanciulla del West, i morbidi abbandoni de La Rondine, la Roma papalina di Tosca piuttosto che la sontuosità di Turandot , opera ultima e incompiuta intorno alla quale si consuma un altro suggestivo incontro del grande musicista, quello con Galileo Chini. Rivelatrici in tal senso, di quest’ultimo, sia Autunno e Inverno che Il tempio del Figlio del Sole a Colombo. E non meno di questi il costume giapponese pensato per la moglie da Paolo Troubetzkkoy, altro nome di spicco del Pantheon artistico pucciniano, insieme a quello di Michetti e di Previati, La Danza (Pastorale) del quale fa da manifesto della mostra.
Leopoldo Metlicovitz, Manifesto Ricordi per ‘Turandot’, 1926
Si son volute fare le cose per bene anche nell’allestimento, per il quale è stata chiamata una figura eminente della creatività teatrale, la scenografa Margherita Palli, storica collaboratrice di Luca Ronconi in celebrate produzioni operistiche. Palli ha sapientemente modellato i non facili spazi espositivi inseriti nel Complesso monumentale di San Michieletto, distribuendo sobriamente i circa 160 pezzi – non solo dipinti, disegni e sculture, ma anche oggetti e cimeli, fotografie e manifesti di Hohenstein e Metlicovitz -, e regalando un tocco di ulteriore leggerezza nell’invenzione di proiezioni oniriche in forma di candidi rendering di luoghi storici della biografia pucciniana, la casa natale, quella di Torre del Lago e il Villino di Viareggio vissuto dal nostro tre anni scarsi, giusto il tempo di lasciare incompiuto il suo ultimo capolavoro, Turandot. (Fra l’altro, in concomitanza con la mostra, il Villino è aperto alle visite il sabato fino al 22 settembre).
La mostra lucchese coglie nel segno proprio nel momento in cui permette, attraverso l´accostamento ad alcune delle opere esposte, di immaginare attraverso la loro visione un universo pucciniano che è a sua volta riverbero del suo tempo, di un´epoca, di una Stimmung, si direbbe con un termine caro assai più alla Romantik che al gusto successivo. Anche per questo motivo, oltre che per la serietà del lavoro scientifico e documentale, merita lo sforzo di una gita a Lucca. Che in fondo, a pensar anche alla bellezza della cittadina toscana, non è neppure così grande sacrifício.

Luigi Abbate

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