Giulio Turcato aveva lineamenti delicati, testa piccola in corpo massiccio, che faceva massa con la sedia sulla quale era seduto, in quell’unico stanzone disadorno affacciato su via Sant’Andrea delle Fratte, la stessa strada dove abitavo allora, a qualche numero di distanza, circa vent’anni fa. Accanto a lui, ormai stanco e taciturno, la fida Vana, moglie e musa di un tempo, e allora unico reale contatto con il mondo esterno e pratico. Lei, il volto minuto come un cammeo settecentesco, parlava con Giulio, mentre torturava con le mani devastate dall’artrite un foglietto di carta. Anche Vana era prigioniera di una sedia a rotelle ma, a differenza del compagno, era mobile, nervosa, attiva. Non più musa, ma solerte organizzatrice di una vita sempre più complicata.
Intorno, il nulla. O meglio, il poco. Scarsa la luce che illumina l’ambiente spoglio, un tavolo ingombro di carte, un cavalletto con una tela appena abbozzata, uno o due ragazzi che rendono meno grave il quotidiano. Simili in tutto, anziani e spossati ma non remissivi, scintillanti nelle rare frasi scambiate tra loro, rese festose dalle note danzanti del dialetto veneto. Intuivi dietro le poche parole di circostanza una storia antica, cesellata da quell’allegria creativa frutto di un’esistenza fecondata da un’arte intesa come urgenza necessaria, condizione di vita alternativa rispetto agli squallidi diktat di una borghesia piccina e codina degli anni Sessanta.
Rischiosa bohème senza orari ma colma di entusiasmi, ravvivata ogni giorno da incontri accesi da passioni condivise, le lotte senza quartiere tra realismo e astrattismo, i credi politici, l’esperienza di Forma 1, un gruppo di giovani che avevano il coraggio di disobbedire al Renato nazionale, potente guru dell’arte ufficiale fondata su un figurativo da tazebao. Loro alzano lo sguardo fuori, cercano il dialogo con l’Europa e le sue energie creative più azzardate, in quella foresta di segni e materie tra Hartung e Fautrier.
Oggi, dopo vent’anni, i volti immobili di Giulio e Vana mi tornano alla mente nella sala del Macro che ospita l’omaggio a Turcato (Stellare, fino al 13 gennaio), ordinato con esemplare precisione da Benedetta Carpi De Resmini e Martina Caruso, la giovane nipote di Vana che porta con sé i suoi lineamenti minuti e lo sguardo vigile. Rivedo tele sospese tra figura e colore, come il celebre Comizio, Stellare, Tranquillanti per il mondo o La Porta, opera tridimensionale e particolarmente spregiudicata per l’epoca. Immagini che si mischiano a quelle delle cene alla Trattoria Menghi di via Flaminia, così ben raccontate da Ugo Pirro nel suo delizioso libretto Osteria dei Pittori.
Penso a tutto quello che questa disgraziata e inconsapevole Italia ha distrutto nell’oblio, nell’incapacità di costruire la storia da protagonista. Una nazione un tempo luminosa e creativa che oggi assomiglia ad un cumulo di macerie, dove alcuni appassionati (la passione, che parola impronunciabile in un Paese travolto dal cinismo d’accatto dei servi sciocchi, pronti a tutto pur di servire il padrone di turno) cercano di rintracciare frammenti di un’epoca felice, per sopravvivere ad una delle stagioni più buie dell’intera storia della Penisola.
Da Giulio e dai suoi capolavori esposti al Macro viene l’esempio più chiaro e lungimirante: non mollare mai, quando il denaro manca e il corpo ti tradisce, e non ti resta che la testa per rivolgere gli occhi al futuro, anche quando è buio come la notte. Per questo è importante che il Macro continui a guardare indietro per rileggere le avventure creative di artisti che hanno lavorato in questa città e cui hanno dato molto. E che raccontano una nazione diversa, non annichilita da decenni di soubrette, veline, escort e calciatori. Un’Italia sana e gloriosa. Potremmo mai ritrovarla o è già troppo tardi?