Tutto quello che avreste voluto sapere del museo | e non avete osato chiedere

di - 21 Ottobre 2014
Di solito, ci si fida dei musei. Sarà per l’aura reverenziale che le opere continuano ostinatamente a emanare, tra allarmi sofisticati e assicurazioni astronomiche, oppure per l’impassibilità delle didascalie e l’inflessibilità dei custodi, o forse a causa di quella particolare costituzione autonomamente validante, propria di tutte le istituzioni politiche, religiose e culturali. Insomma, il museo e le cose che vi sono conservate sembrano parlare un linguaggio super partes, giusto, corretto e se sulla targhetta si legge “Fontana, 1917”, viene naturale pensare che sia proprio così e non in un altro modo.
La verità, però, è un termine inconsapevole e Walid Raad (Chbaniye, 1967) vuole ricordarlo a tutti, ammettendo, con l’autorevolezza dell’artista di fama mondiale, che il museo potrebbe anche essere un luogo che non esiste affatto. Così, il MADRE, ospitando la mostra dell’artista libanese, a cura di Andrea Viliani e Alessandro Rabottini, in collaborazione con il museo d’arte contemporanea Carré d’Art di Nimes, ha coraggiosamente deciso di continuare il percorso di autoanalisi introspettiva – i cui primi passi già si potevano scorgere nella suggestiva Kabul arrotolata/srotolata da Francis Alÿs – su compiti, possibilità e vulnerabilità di un museo d’arte contemporanea nell’epoca in cui il contemporaneo non è più una categoria identitaria.

Allora, Preface/Prefazione (fino al 19 gennaio) prende le forme di una pagina che dileggia il lettore, ironizzando, non tanto su quella sospensione del dubbio tipica del fruitore delle informazioni massmediatiche, quanto sull’impossibilità, beffardamente umana, non solo di rappresentare la realtà ma anche di definirla. Con il sorriso di chi sa come non andrà a finire la storia, Raad conduce il visitatore tra corridoi musealmente paradossali, sulle cui pareti sono esposte opere falsificate e didascalie ricche di particolari improbabili, passando tra lunghe sale di archivi fotografici e testuali, raccolte da The Atlas Group, che non è un gruppo ma un progetto di quindici anni di ricerca ed esplorazione delle guerre del Libano.
Scratching on Things i Could Disavow, “appunti su cose che potrei ritrattare”, un ciclo iniziato nel 2007 e ancora in corso, allestito nell’ampio ambiente al piano terra del MADRE, raccoglie grandi installazioni metamuseali. Su una parete staccata e appesa al soffitto, come la scenografia di un teatro-museo, sono scritti, in fitti caratteri arabi, decine di nomi, uno dei quali è evidenziato. Sul retro, la didascalia spiega che il muro faceva parte di un’istallazione dedicata ad alcuni fantomatici artisti arabi e che un tale cuoco, rivale di Raad, avendo notato un errore grammaticale, abbia voluto polemicamente correggerlo a penna rossa. Ognuno è libero di rapportarsi alla narrazione con l’atteggiamento che crede più giusto o costruttivo. Credere al muro, dubitare del muro o entrambe le posizioni, nello stesso tempo.
Il secondo piano è interamente dedicato all’archivio costruito dal Gruppo Atlas. Ogni sala è un file specifico, con temi, immagini e materiali eterogenei, tra diapositive e fotogrammi di palazzi sventrati e primi piani di armi. È il linguaggio ambiguo della narrazione della guerra, la cui grammatica parla del meccanismo di rimozione del residuo intollerabile, più che della volontà di trasmissione dell’evento. Decidemmo di lasciarli dire due volte: ne siamo convinti, è una raccolta di fotografie riferite alla guerra del 1982 tra Israele e Libano, indicata in ambito israeliano con l’espressione “Operazione Pace in Galilea”. Su immagini sbiadite di soldati a riposo ed edifici distrutti, in un bianco/nero che rende onirici i tratti, sono immessi improvvisi inserti di colore, che denunciano immediatamente una manomissione strumentale e ideale, un intervento linguistico che disgrega il reale e il falso.
Il dato storico – cioè, la manifestazione del mondo arabo, l’emersione percettiva di uno stratificato territorio economico, culturale, sociale – diventa un caso con il quale confrontare la questione dell’identità della memoria globale, quasi un imprevisto nella registrazione critica della narrazione collettiva.  Il fatto che a compiere questa indagine sia proprio un artista in un museo, tradizionale spazio della stabilità ritagliato tra le regioni transitorie della cronologia quotidiana, è dato consequenziale, perché l’intera semantica della musealizzazione è al centro di una discussione dai termini incerti, ormai da qualche anno a questa parte. Non più mondi delle ombre remote, i luoghi espositivi si configurano come archivi fluidi dell’elaborazione delle cose e dei concetti, spazi aperti nei quali l’interpretazione è atto esplicito e necessario, considerando che la realtà degli uomini esiste solo in quanto trasmissione di informazioni, con tutti i rischi del caso.

Significativo che, nello stesso giorno, sia stata presentata anche la penultima parte del progetto di ampliamento dell’esposizione permanente del MADRE, un tema di primo piano, sul quale il direttore Andrea Viliani ha sempre insistito, sapendo che la portata di un museo e l’operato di chi vi lavora, si misurano per la capacità di proporre un’offerta espositiva istruttiva, stabile e organica. «PerFormare una collezione è un progetto identitario, aperto verso la storia della comunità e verso il mondo», ha spiegato Viliani, introducendo le new entry, che comprendono artisti italiani e internazionali di diverse generazioni. Alcuni già presenti nella collezione altri ospitati in occasione di mostre personali e collettive, tutti connessi, in qualche modo, al tessuto napoletano. Dunque, le sale si arricchiscono degli spunti visivi e concettuali di Francis Alÿs, Antonio Biasiucci, Lawrence Carroll, Roberto Cuoghi, Giulio Delvè, John Henderson, Shirin Neshat, Mimmo Paladino, Mario Schifano, Pádraig Timoney. Perché vanno bene sperimentazioni e dissertazioni ma un museo, anche nel caos terminologico del XXI Secolo, è un edificio destinato a ospitare e conservare opere d’arte e oggetti di interesse storico-scientifico, etno-antropologico e culturale, valorizzandone la fruizione pubblica, con tanto di appositi complementi didattici.

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