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04
giugno 2016
Umano, già Postumano
Progetti e iniziative
E se il progresso tecnologico per spostare sempre più in là il limite dell’umano fosse solo un modo di avvicinarsi alla fine? L’ipotesi di Goshka Macuga alla Fondazione Prada
L’origine, il tempo, la fine, il dopo di noi, la rinascita: tutte tematiche immense in grado di innescare quella sottile angoscia, preludio di scomode prese di coscienza, che mai ci abbandona durante la visione di “TO THE SON OF MAN WHO ATE THE SCROLL”, alla Fondazione Prada fino al 19 giugno. Attraverso un percorso espositivo potente, Goshka Macuga (Varsavia, 1967) rilegge l’evoluzione della conoscenza umana, dall’arte retorica alla memoria artificiale, come un nostro progressivo estinguerci nel costruire scenari post-umani in grado di sopravvivere anche dopo di noi. Le conoscenze vengono accumulate e introiettate nel corso del tempo fino a divenire struttura molecolare del nostro pensare, la stessa che pare materializzarsi nei tre ambienti della Cisterna, dove 73 teste di bronzo che rappresentano 61 figure storiche e contemporanee, come Albert Einstein, Sigmund Freud, Martin Luther King, Karl Marx, Mary Shelley e Aaron Swartz, sono collegate tra loro da lunghe barre metalliche, quasi una sorta di innesto sapienziale artificiale ormai divenuto biologico per un nostro uso e consumo spesso inconsapevole.
L’umanità, schiacciata fra il sapere della fine e il desiderio di eluderla, fra timore e slancio, non solo sintetizza i saperi assimilandoli per conservarli, ma dall’origine si esteriorizza in supporti artificiali, in repliche inorganiche di se’ nel tentativo di potenziarsi, di infrangere il proprio limite corporeo e mortale. Dal bastone allo smartphone, al cyborg, ci siamo affidati o abbiamo integrato protesi artificiali a noi progressivamente più simili fino ad arrivare al robot, replicante perfetto e resistente dell’umano fragile che muore. Organico e inorganico, dentro e fuori, biologico e sintetico sono già da sempre coinvolti l’uno con l’altro e l’umano sfuma via via in post-umano, avvicinandosi alla fine inesorabile del proprio viaggio, solo un tratto infinitesimale di un divenire eterno in corsa, prima e dopo di noi. Ma l’androide esposto al pianoterra del Podium di Fondazione Prada (concepito dall’artista e prodotto in Giappone da A Lab) che declama senza sosta un patchwork di discorsi di grandi pensatori del passato e che sarebbe destinato a sopravviverci e a raccontare di noi nell’universo senza uomo, pare più l’estremo slancio per esserci al di là di noi, antropizzando con lo stesso termine post-umano un futuro che non ci appartiene. E l’inutilità di questa speranza risuona agghiacciante nelle frasi, nelle parole dell’umanoide che si frantumano come fragili suoni nel loop monotono del suo discorso, con l’avanzare della consapevolezza che non potremo ascoltarlo.
In questa angosciante ambientazione dominata dalla dimensione temporale del robot, a salvarsi è solo una selezione di opere di grandi dimensioni (di Phyllida Barlow, Robert Breer, James Lee Byars, Ettore Colla, Lucio Fontana, Alberto Giacometti, Thomas Heatherwick ed Eliseo Mattiacci provenienti dalla Collezione Prada e da importanti musei italiani e internazionali, oltre a un nuovo lavoro dal titolo ‘Negotiation sites’ after Saburo Murakami, realizzato da Goshka Macuga in collaborazione con Kvadrat in Danimarca) come tracce di una prospettiva (quella umana) sul cosmo ormai estinta e irrilevante.
Al secondo piano troviamo Before the Beginning and After the End, risultato di una collaborazione fra l’artista e Patrick Tresset. Cinque tavoli lunghi 9,5 metri e ricoperti da schizzi, disegni, testi, formule matematiche, diagrammi tracciati con penne biro dal sistema Paul-N realizzato da Tresset, srotolano la storia del progresso umano che lì prende forma. Ripercorrendolo incontriamo riproduzioni di opere d’arte antica e contemporanea di artisti come Hanne Darboven, Lucio Fontana, Sherrie Levine, Piero Manzoni e Dieter Roth, mischiati a oggetti rari, libri, documenti fino ad arrivare all’ultimo tavolo, a quel dopo che non ci riguarda di cui dobbiamo accettare di essere in balìa, mentre camminiamo verso futuri post-umani che saranno altri a scrivere e a cui sembrano alludere gli incomprensibili schizzi tracciati in tempo reale dai robot della serie Paul-a posti sul tavolo-limite.
L’inquietante ticchettio robotico non fa che infierire sull’amara presa di coscienza con cui ci lascia l’artista: l’evoluzione della specie umana, il progresso tecnologico, il continuo accumulo di conoscenze ‘ingoiate’, le manipolazioni corporee, le protesi biocompatibili per potenziarci, i dispositivi umanoidi per replicarci ci portano ancora lì, a quell’inevitabile destino sempre saputo e mai accettato da noi, esseri non speciali proprio come gli altri. Ma perennemente in bilico tra il sapere della morte e il sogno di vita eterna.
Martina Piumatti