Ramak Fazel, All the Feels, within an Evolving Landscape, Volvo Studio, Milano, 2025
L’essenziale è invisibile agli occhi, diceva Antoine de Saint-Exupéry, scrittore del celebre Il piccolo principe. Un paradosso, considerando che l’autore francese era anche un aviatore che scrisse diverse opere dedicate al volo. Dall’alto, infatti, tutto sembra perfetto, sensato, definito. Dall’alto si vedono cose che dal basso non è possibile cogliere. E viceversa. Sono due mondi diversi che, apparentemente, non si toccano. E chissà l’autore cosa ha visto, quando è caduto con il suo aereo il 31 luglio del ‘44, durante un volo di ricognizione per l’aviazione francese. Avrà pensato, forse per un attimo, che i due mondi stavano per toccarsi. L’alto e il basso. Magari si sarà rammaricato perché non avrebbe potuto raccontare quell’esperienza estrema, finale, ai suoi lettori.
Ebbene, con All the feels, within an evolving landscape, opera di Ramak Fazel, fotografo americano di origine iraniana, succede qualcosa di simile a Piazza Alvar Aalto, Milano. Cinque visori in alluminio concentrati su altrettanti soggetti: la Torre UniCredit, il Bosco Verticale, la Biblioteca degli Alberi, il Palazzo Lombardia e la Chiesa di San Gioachimo. Qualcosa che ricordano i famosi (e pesantissimi) cannocchiali che decenni fa, per poche lire, ti facevano scoprire gli splendidi panorami delle città italiane. Due mondi che si toccavano appunto. Qui, invece, tra Via Melchiorre Gioia e Viale della Liberazione, si incontrano varie dimensioni: vicino e lontano, alto e basso, passato e presente, visibile e invisibile. Nata per Volvo Studio, l’installazione temporanea è curata da Viasaterna in collaborazione con Fondazione Istituto dei Ciechi di Milano Onlus e Portanuova Luoghi.
L’installazione site-specific in parte aggiorna l’esperienza italiana del fotografo americano, attivo tra New York e Los Angeles e vissuto a Milano tra il 1994 e il 2009. Un periodo che omaggiò con Milan Unit, un’opera-archivio di immagini e memorie della città attraverso l’obiettivo di una Mamiya, una camera analogica, un mezzo tecnico che ormai stava imboccando il viale del tramonto. E da qui l’idea di un ritorno, umano ed esistenziale, unito a una proiezione, che è visiva, personale e sociale, ma anche concettuale e programmatica.
Passato e presente dunque, come due mondi che si ritrovano. Quando infatti il giovane Fazel attraversava le vie del quartiere Isola, le sue linee, i suoi spazi, erano molto diversi da quelli odierni. Il quartiere, a vocazione industriale dall’inizio del ‘900, è stato chiamato così per l’isolamento dal resto della città dovuto alla costruzione della ferrovia che tagliava fisicamente la continuità urbana e che lo rendeva raggiungibile solo attraverso passerelle pedonali. Dopo la deindustrializzazione del secondo Dopoguerra, il quartiere è andato lentamente in rovina e nel degrado, pur mantenendo una forte vocazione sociale e identitaria.
Era questo lo spazio critico attraversato dall’artista americano e che dal 2000 in poi ha conosciuto una rapidissima trasformazione attraverso la nascita dei progetti architettonici, delle numerosi torri e grattacieli dai primi anni del 2000: Torre Unicredit, il Bosco Verticale, la Torre Solaria, la Torre Aria, la Torre Diamante, la Biblioteca degli Alberi. La Milano che l’artista ricordava è sparita in brevissimo tempo. Ma ha preso nuovo slancio, si è ridefinita e trasformata secondo nuove direttive e nuovi bisogni. E lui, esploratore e grande conoscitore dei temi dell’identità culturale, dei concetti di “luogo”, “origine” e “memoria” (49 Capitols a New York nel 2008, The Business of People alla Biennale di Venezia del 2014, Silicon Valley. No_Code Life del 2021) ha voluto recuperare non solo una dimensione, uno spazio perduto, forse ancora vivo nella memoria di qualcuno e miscelarlo con il nuovo skyline di Porta Nuova. Ma ha voluto anche esprimere la necessità di un gesto, un’azione, quella di fermarsi a guardare insieme ad altri il paesaggio. Qualcosa di totalmente perduto. Qualcosa di non scontato in questo reticolo metropolitano di nervi e arterie di cemento, acciaio, vetro e asfalto.
Uno spazio visivo che diviene anche mappa mentale, nel senso letterale del termine, attraverso alcuni modellini in materiale plastico dei soggetti osservabili e da conoscere attraverso non solo la vista ma anche il tatto. Sì, perché l’idea è quella di permettere a vedenti e non vedenti di ristrutturare e fissare mnemonicamente anche uno spazio immaginativo altro, divergente, innovativo.
Anche sfruttando delle tavole descrittive dei cinque modelli – a cura della storica dell’architettura Maria Vittoria Capitanucci – contenenti testi in braille e per ipovedenti. E da qui l’incontro profondo con l’artista. Proprio grazie alla consistenza di questi modellini in scala che ricordano il calore e l’opacità del legno in questa foresta metallica riflettente; grazie all’uso dei polpastrelli, su questa terrazza che suggerisce un intreccio di spazio e tempo, di attesa e osservazione; grazie all’incontro tra memoria e dimensione iper-presente emerge, infine, l’anima gentile e romantica dell’artista fotografo.
Fazel vuole dunque donarci una visione alternativa e alternata non solo della città ma anche del nostro modo di stare e di vivere i luoghi e gli spazi. Ipermoderni e gentili, volanti e romantici. Proprio come il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry.
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