Un corpo a corpo con l’acqua

di - 30 Novembre 2016
Svelare e celare: si procede per dualismi avvicinandosi al lavoro di Beatrice Pediconi (Roma 1972, vive e lavora a New York) che da z2o Sara Zanin Gallery presenta “Dimensioni Variabili”, la sua seconda mostra personale nella galleria romana (fino al 28 gennaio 2017), tra gli eventi del Fuori Quadriennale /16a Quadriennale d’arte.
Dipingere sull’acqua (raccolta in una vasca bassa di circa un metro) è sempre l’inizio di un viaggio che trasporta, sia l’autrice che lo spettatore, in una realtà costantemente diversa, emotivamente pregnante, consistente eppure evanescente. La pittura è effimera in questa pratica artistica che è più vicina all’azione performativa (c’è chi la definisce “pittura dinamica”) e che assume nuovi significati, nel momento in cui l’utilizzo di tecniche e linguaggi come la fotografia e il video ne restituiscono un’identità autonoma.
Il fondo della vasca – intanto – può essere bianco o trasparente, ma nel video Alien (2016) l’artista per la prima volta l’ha dipinto. L’opera, esposta nella primavera scorsa, insieme ai libri e alle opere della serie Alien Solo, alla galleria sepiaEYE di New York, nello specifico contesto di Via della Vetrina rappresenta quasi la conclusione di un viaggio “iniziatico” che partendo dai libri nella prima sala – luminosissima – conduce all’oscurità dell’ambiente a volta, in cui l’unica luce s’irradia dalla proiezione delle immagini fluttuanti del video stesso.

Nell’acqua i pigmenti ad olio creano forme imprevedibili in cui è la materia stessa a modificarsi, nella sua interazione con gli agenti atmosferici e con il tempo. Dipingere sull’acqua riporta, comunque, ad uno stadio primordiale, o meglio prenatale.
È la stessa Pediconi a parlare di gestazione, sfogliando uno dei nove libri che ha realizzato nell’ultimo anno (da marzo a novembre). Pezzi unici che contengono un numero diverso di immagini, crescente da due fino a dieci, in cui dominano le tonalità del bianco e nero, con le varie sfumature di grigi e i viraggi in seppia.
Come scrive il noto critico fotografico americano Lyle Rexer, nel bel volume Something Alien, pubblicato nel 2016 da Danilo Montanari Editore: «Sono libri che vi rendono ciechi di fronte all’ordinario, che vi fanno impazzire per il rammarico di aver perso le meraviglie dei sensi nella convenzionalità; sono libri che, nello stesso tempo, vi guariscono ristabilendo quel ricco disordine, e che vi stimolano a vivere più pienamente in un presente incorreggibile».
Ognuno è il racconto di un determinato periodo, «come una performance ripetuta», spiega l’artista. Il movimento e «la memoria di ciò che non esiste più», sono affidati alla registrazione attraverso il processo meccanico della polaroid. Partendo dal 10×15, l’autrice è andata sperimentando le potenzialità del grande formato, trovando la sua dimensione ideale nel 20×25.

La trascrizione procede, quindi, per sequenze che assecondano una voce interiore, un suono dell’anima. I libri, anche nella loro valenza di contenitore-oggetto, sono realizzati dalla stessa Pediconi che, dopo l’esperienza del suo primo libro d’artista per la Collezione Maramotti, nel 2013, ha deciso di implementare questo aspetto all’interno della sua ricerca.
«Una vera passione» – la considera così – in cui è lei stessa a creare la carta costruendosi un telaio, stendendola, tagliandola, bagnandola, piegandola, facendo da sé anche la rilegatura. «Ho trovato delle similitudini tra rilegare un libro, comporlo, realizzarlo e dipingere sull’acqua. Si deve essere concentrati, si entra in una specie di trance. Il gesto viene ripetuto e bisogna essere molto precisi. Nei miei lavori c’è anche l’attesa, perché la materia dopo un certo momento cambia forma, per cui i vari strati di consistenza dipendono dal tempo trascorso dal momento in cui ho dipinto».
Indicando le polaroid, l’artista spiega come alcune forme, soprattutto quelle più frammentate che «ricordano i pizzi», sono le prime ad essere state realizzate con il pigmento, mentre quelle più compatte, seppur liquide, sono le più recenti.

Inoltre, sia nel formato dei libri che nell’uso della carta velina e dei passepartout c’è anche un certo richiamo alla forma dei vecchi album fotografici. Delle polaroid, comunque, viene dichiarata la duplice natura sia tecnica che concettuale, lasciando che il bordo dell’immagine sia contenuto o meno dal passepartout. Anche il fatto che alcune pagine rimangano leggermente sollevate rispetto alle altre, rappresenta è un valore aggiunto che definisce il lavoro anche in termine di tridimensionalità: «come fossero una scultura». La costruzione e la cura del dettaglio include la copertina, realizzata con un tessuto di lino grezzo: «Pensavo ad un vestito, più che a una scatola rigida che contenesse questo lavoro artigianale. Una tela come quella con cui, un tempo, i pittori richiudevano il dipinto, piegandola su se stessa» .
Nel percorso dalla luce all’oscurità e viceversa, proposto in occasione di “Dimensioni Variabili”, il passaggio intermedio è occupato dall’installazione con la serie di lightbox dal titolo Variabile, realizzate appositamente per la mostra. Le opere, realizzate con fotocolor originali, sono disposte a terra. «È come un giardino di ninfee, che si deve osservare girandoci intorno», conclude l’artista.
Manuela De Leonardis

Nata a Roma nel 1966, è storica e critica d’arte, giornalista e curatrice indipendente. Con Postcart ha pubblicato A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (2011), A tu per tu con i grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (2013); A tu per tu – Fotografi a confronto – Vol. IV (2017); Cake. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (2013), progetto a sostegno di Bait al Karama Women Center, Nablus (Palestina). E’ autrice anche Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (ali&no, 2015) e Isernia. L’altra memoria – Dall’archivio privato della famiglia De Leonardis alla Biblioteca comunale “Michele Romano” (Volturnia, 2017).

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